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Le Mille e Una Notte Storia di Nur ed Din e della Bella Persiana.

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LE MILLE E UNA NOTTE - STORIA DI NUR ED DIN E DELLA BELLA PERSIANA

La città di Bassora fu per lungo tempo capitale di un regno tributario dei califfi. Il re che lo governava al tempo del califfo Harùn ar-Rashìd si chiamava Zinebi, ed erano cugini, perché figli di due fratelli. Zinebi non aveva creduto sufficiente affidare l'amministrazione dello stato a un solo visir, e ne aveva scelti due, Khacan e Saouy.

Khacan era dolce, previdente, liberale e si faceva un dovere di favorire, per quanto dipendeva dal suo potere e senza portar pregiudizio alla giustizia, chiunque ricorresse a lui. Perciò tutti alla corte di Bassora, in città, e in tutto il regno, lo rispettavano e gli tributavano le lodi che meritava.

Saouy era completamente diverso, sempre malinconico, scortese con tutti, senza mostrare nessun riguardo per il grado o la qualità. Oltre a ciò, invece di acquistarsi meriti con le sue grandi ricchezze, era tanto avaro da privarsi perfino delle cose più necessarie. Nessuno poteva soffrirlo e non si sentiva dire di lui altro che male. Quello poi che lo rendeva maggiormente odioso, era l'avversione che nutriva per Khacan, tanto che, interpretando in senso sfavorevole quanto faceva questo ministro, non cessava di metterlo in cattiva luce presso il re.

Un giorno, dopo il consiglio, il re, per sollevarsi lo spirito, conversava coi suoi due visir e con le altre persone ragguardevoli. Il discorso cadde sulle schiave che si comprano e si tengono poi pressappoco allo stesso rango di mogli legittime. Alcuni pretendevano che basta una schiava sia bella di viso e di persona, per consolare delle donne che si è costretti a prendere in moglie per alleanza o interesse di famiglia, e che per lo più non hanno né gran bellezza, né le altre perfezioni della persona. Altri sostenevano, e Khacan era di questo parere, che la bellezza e le qualità del corpo non sono le sole cose da ricercare in una schiava: ma che devono essere accompagnate da molto spirito, da saggezza, modestia, gentilezza, e, possibilmente, da buona istruzione, perché è preferibile che persone le quali hanno grandi affari da amministrare, dopo aver passato il giorno in penose occupazioni, ritirandosi nelle loro case, trovino una compagna la cui conversazione sia utile, piacevole e divertente. Essi sostenevano infatti che l'uomo non si comporterebbe diversamente da un animale, se tenesse una schiava solo per guardarne le bellezze e per soddisfare una passione che abbiamo in comune con le bestie.

Il re si schierò con questi ultimi, e lo manifestò ordinando a Khacan di comprargli una schiava di perfetta bellezza, e che avesse tutte le belle qualità che avevano elencato, e che fosse soprattutto sapientissima.

Saouy, che si era dichiarato di parere contrario, geloso dell'onore fatto dal re a Khacan, gli disse:

«Sire, sarà assai difficile trovare una schiava tanto perfetta quanto vostra maestà la chiede. E anche se la trovasse, ciò che stento a credere, la comprerà a buon mercato se la pagherà diecimila dinar».

«Saouy», rispose il re, «voi trovate, a quel che sembra, che questa somma sia troppo ingente: può esserlo per voi, ma non lo è per me.»

Nello stesso tempo il re ordinò al suo tesoriere di mandare i diecimila dinàr a Khacan, il quale, appena fu a casa sua, fece chiamare tutti i sensali di vecchie e giovani schiave, e ordinò loro che, appena ne avessero trovata una che corrispondesse alla descrizione che ne fece, lo avvisassero.

I sensali, tanto per compiacere Khacan quanto per la speranza di fare un affare, gli promisero di cercarne una che avesse le qualità desiderate e non passava giorno senza che gliene portassero qualcuna; ma lui trovava sempre a tutte qualche difetto.

Un mattino, mentre Khacan andava al palazzo del re, un sensale gli si presentò con gran premura, annunciandogli che era giunto un mercante dalla Persia e che aveva una schiava da vendere d'una bellezza perfetta.

«E quanto allo spirito e alla cultura», aggiunse il mercante, «garantisce che è tale da poter tenere testa a quanto c'è di più sapiente al mondo.»

Khacan, lieto di tale notizia, gli disse di condurgli la schiava al suo ritorno dal palazzo.

Il sensale non mancò di andare all'ora fissata da Khacan, che trovò la schiava tanto avvenente che le diede il soprannome di bella Persiana. Siccome egli era dotato di molto spirito, ed era anche sapientissimo, comprese facilmente durante il colloquio avuto con lei, che avrebbe cercato inutilmente un'altra schiava che la superasse in una qualunque delle qualità volute dal re.

Domandò quanto ne volesse, e il sensale gli rispose:

«Signore, il mercante ne vuole diecimila dinàr. Mi ha giurato che senza contare le sue cure, le sue pene, e il tempo perduto per allevarla bene, ha speso pressappoco questa cifra per lei, tanto in maestri per gli esercizi del corpo, per istruirla e formarne lo spirito, quanto in abiti e nutrimento. Essa suona ogni specie di strumento canta, balla, scrive meglio dei più abili scrittori, compone versi, e non c'è nessun libro che non abbia letto. Non si è mai sentito dire che una schiava abbia saputo tante cose quante ne sa questa».

Il visir Khacan, conoscendo i meriti della bella Persiana assai meglio del sensale, il quale ne parlava solo in base a quello che gliene aveva detto il mercante, non volle rimandare la conclusione dell'affare, e mandò a chiamare il mercante.

«Non è per me che voglio comprare questa schiava, ma per il re, ma occorre che gliela vendiate a minor prezzo di quanto avete chiesto.»

«Signore», rispose il mercante, «mi farei un dovere di farne dono a sua maestà, se un mercante come me potesse fare cose simili. Io non vi chiedo altro se non che mi si rimborsi quanto ho speso per allevarla e formarla tale quale è ora.»

Il visir Khacan, non volendo mercanteggiare di più, fece contare al mercante la somma richiesta, e questi, prima di andarsene gli disse:

«Signore, poiché la schiava è destinata al re, permettete che vi dica che è molto stanca per il lungo viaggio che abbiamo fatto fin qui. Quantunque sia di una bellezza senza pari, nondimeno sarà tutt'altra cosa se la terrete una quindicina di giorni in casa vostra, facendola trattare bene. Dopo questo tempo, quando la presenterete al re, essa vi farà onore e vi darà merito e spero mi sarete grato. Notate anche che il sole ha un poco scurito la sua pelle, ma dopo che sarà stata due o tre volte al bagno, se sarà vestita elegantemente, sarà tanto cambiata che la troverete infinitamente più bella».

Poiché il consiglio del mercante era piaciuto a Khacan, egli decise di seguirlo. A tal fine dette alla bella Persiana un appartamento privato, vicino a quello di sua moglie, e la pregò di farla mangiare con lei e di trattarla come una signora appartenente al re. La pregò anche di farle fare diversi magnifici abiti.

Prima di lasciare la bella Persiana, le disse:

«La vostra fortuna non potrebbe essere più grande, giudicatene voi stessa. Io vi ho comprata per il re, e spero che egli sarà più soddisfatto di possedervi di quanto non lo sia io per aver adempiuto la commissione di cui mi ha incaricato. Tuttavia debbo avvertirvi che ho un figlio il quale non manca di spirito; è giovane, pazzerello e intraprendente, per cui dovrete stare in guardia quando si avvicinerà».

La bella Persiana lo ringraziò di quel consiglio, e dopo averlo assicurato che ne avrebbe tratto profitto, egli si ritirò.

Nur ed-Din - così si chiamava il figlio del visir Khacan - aveva libero accesso alle stanze della madre con la quale aveva l'abitudine di pranzare.

Era bello, giovane e audace, e poiché aveva molto spirito e molta facilità di esprimersi aveva anche il dono particolare di ottenere tutto quanto desiderava.

Vide la bella Persiana, e fin dal loro primo colloquio, quantunque fosse stato avvertito che era stata comprata da suo padre per il re non si fece il minimo scrupolo di amarla. Si lasciò vincere dapprima dalle sue grazie, e dopo il colloquio che ebbe con lei, decise di usare qualunque espediente per rapirla al re.

La bella Persiana dal canto suo trovò Nur ed-Din amabilissimo per cui disse tra sé:

«Il visir mi ha fatto un grande onore comprandomi per il re di Bassora: ma io sarei felicissima se volesse invece destinarmi al suo figlio».

Nur ed-Din non si fece scrupolo di profittare del vantaggio che aveva di poter vedere una bellezza simile, di cui era tanto innamorato, e di conversare, ridere e scherzare con lei.

Non l'abbandonava mai se non quando la madre lo costringeva dicendogli:

«Figlio mio, non è conveniente che un giovane come te stia sempre nelle camere delle donne; vai via, dunque, ritirati, e pensa piuttosto a renderti degno di succedere un giorno alla dignità di tuo padre».

Siccome era molto tempo che la bella Persiana non andava al bagno a causa del lungo viaggio, la moglie del gran visir diede ordine di preparare appositamente per lei il bagno che il visir aveva in casa sua, la invitò a usarne raccomandando alle sue schiave di servirla come un'altra se stessa, e di farle indossare all'uscita dal bagno, un abito magnifico che le aveva fatto fare.

All'uscita dal bagno la bella Persiana, mille volte più graziosa di quanto era sembrata a Khacan allorché l'aveva comprata, andò a farsi vedere dalla moglie di lui, che durò fatica a riconoscerla.

La bella Persiana le baciò la mano con molta grazia, dicendole:

«Signora, io non so come mi trovate con l'abito che vi siete preso l'incomodo di farmi fare. Le vostre ancelle mi assicurano che mi sta tanto bene che non si può più riconoscermi: ma sono a quel che sembra adulatrici; perciò mi rimetto al vostro giudizio e, se dicono la verità, a voi signora sarò obbligata del vantaggio che mi dà».

«Figlia mia», rispose la moglie del visir con gioia immensa, «voi non dovete giudicare adulazione quello che le mie donne vi hanno detto; io me ne intendo più di loro e, senza parlare del vostro abito che vi sta a meraviglia, voi uscite dal bagno tanto bella che io stessa non vi riconosco più. Se sapessi che il bagno è ancora buono vi andrei io pure.»

«Signora», rispose la bella Persiana, «non ho parole per rispondere alle cortesie che mi fate senza nessun merito da parte mia. Riguardo al bagno esso è ammirevole, e se volete andarvi non perdete tempo.»

La moglie del gran visir volle profittare dell'occasione e avendolo detto alle donne, queste si munirono subito dell'occorrente.

La bella Persiana si ritirò nel suo appartamento, e la moglie del visir, prima di passare al bagno, incaricò due schiave di rimanere con lei con l'ordine di non lasciar entrare Nur ed-Din, qualora fosse venuto.

Mentre la moglie del visir Khacan era al bagno e la bella Persiana era sola, Nur ed-Din arrivò, e, non avendo trovato la madre nel suo appartamento, andò in quello della bella Persiana, dove trovò le due schiave nell'anticamera. Domandò loro dove fosse sua madre, e quelle gli dissero che era al bagno.

«E la bella Persiana?», soggiunse Nur ed-Din. «E' anche lei al bagno?»

«Essa è ritornata da poco», risposero le due schiave, «e sta nella sua camera: ma noi abbiamo avuto ordine da vostra madre di non lasciarvi entrare!»

La camera della bella Persiana era chiusa soltanto da una tenda e Nur ed-Din avanzò per entrare; ma le due schiave si misero davanti alla porta per impedirgli di entrare; egli allora le prese per il braccio e le cacciò fuori dall'anticamera, chiudendo la porta dietro di loro.

Esse andarono al bagno ad annunciare piangendo alla loro signora che Nur ed-Din era entrato di forza nella camera della bella Persiana.

La notizia di questo atto audace causò alla buona donna un vivissimo dispiacere; interruppe il bagno, si vestì con grandissima fretta, ma prima che avesse terminato e fosse giunta alla camera della bella Persiana, Nur ed-Din ne era uscito e aveva preso la fuga.

La bella Persiana fu meravigliatissima di veder entrare la moglie del gran visir fuori di sé, e disse:

«Signora, posso chiedervi perché siete tanto afflitta? Quale disgrazia vi è accaduta al bagno per avervi obbligata ad uscirne così presto?».

«Come!», esclamò la moglie del gran visir, «voi mi fate tranquillamente questa domanda dopo che mio figlio è entrato nella vostra camera, ed è rimasto solo con voi? Poteva forse accadere una maggiore sciagura?»

«Di grazia, signora», soggiunse la bella Persiana, «quale sciagura può esservi per voi se Nur ed-Din è entrato da me?»

«Come!», rispose la moglie del visir. «Mio marito non vi ha detto di avervi comprata per il re, e non vi ha avvertita di tenervi lontana da Nur ed-Din?»

«Non l'ho dimenticato», replicò la bella Persiana, «ma Nur ed-Din è venuto a dire che suo padre aveva cambiato idea, e che, invece di destinarmi al re, come intendeva fare, gli aveva fatto dono della mia persona. Io l'ho creduto, signora, e perché sono una schiava abituata alle leggi della schiavitù fin dalla più tenera età, non ho potuto e non ho dovuto oppormi alla sua volontà. Aggiungete ancora che io l'ho fatto con tanto minor ripugnanza, in quanto avevo già una vivissima simpatia per lui. Io perdo senza accorarmi la speranza di appartenere al re, e sarei felicissima di passare tutta la mia vita con Nur ed-Din.»

La moglie del visir rispose al discorso della bella Persiana con queste parole:

«Piacesse a Dio che quanto mi dite fosse vero: io ne proverei grandissima gioia; ma credetemi, Nur ed-Din è un impostore e vi ha ingannata, non essendo possibile che suo padre gli abbia fatto questo dono. Quanto siamo disgraziati io e lui! E suo padre lo è ancora di più per le tristi conseguenze che deve temere, e che dobbiamo temere insieme con lui! Né le mie lacrime, né le mie preghiere basteranno a ottenere il suo perdono. Suo padre l'immolerà al suo giusto risentimento appena saprà di essere stato disobbedito».

Dette queste parole pianse amaramente, e le sue schiave, che non temevano meno di lei per la vita di Nur ed-Din, piansero con lei.

Il visir Khacan giunse alcuni momenti dopo e fu grandemente sorpreso nel vedere che la moglie e le schiave piangevano e che la bella Persiana era molto triste.

Avendone chiesta la ragione, la moglie e le schiave raddoppiarono le loro lacrime, invece di rispondere.

Il loro silenzio lo sorprese maggiormente, e, rivoltosi alla moglie, disse:

«Voglio assolutamente che mi diciate perché piangete».

La desolata donna non poté dispensarsi dal soddisfare suo marito e perciò rispose:

«Promettetemi, signore, di non maltrattarmi per quello che vi dirò, e siate certo, prima di tutto, che io non c'entro in tutto questo».

E senza aspettare altra risposta, proseguì:

«Mentre stavo al bagno con le donne, vostro figlio è venuto e ha colto questa sciagurata occasione per dare a credere alla bella Persiana che voi non volevate più darla al re, ma farne un dono a lui. Ecco la causa della mia afflizione, perché non oso implorare la vostra clemenza per lui».

Non è possibile esprimere lo sdegno del visir Khacan quando ebbe udito il racconto dell'insolenza di suo figlio.

«Ah!», esclamò dandosi dei pugni, mordendosi le mani e strappandosi la barba, «così dunque, sciagurato, indegno di vivere, getti tuo padre in un precipizio dal più alto grado di felicità, lo perdi, e perdi te stesso con lui? Il re non si contenterà del tuo sangue e del mio per vendicarsi di tale offesa che colpisce la sua stessa persona.»

La moglie si sforzò di consolarlo, dicendogli:

«Non vi affliggete tanto, io mi procurerò agevolmente diecimila dinàr vendendo le mie pietre preziose, e potrete comprare un'altra schiava più bella e più degna del re».

«E credete», rispose il visir, «che io mi affligga per la perdita di diecimila dinàr? Qui non si tratta di questa perdita, né di quella di tutti i miei beni, ma del mio onore, assai più prezioso di tutti i beni dell'universo.»

«Pure», soggiunse la moglie del visir Khacan, «potendo riparare al danno col danaro, non vi saranno conseguenze.»

«E come!», replicò il visir, «non sapete che Saouy mi è nemico? Appena avrà sentore di questo affare andrà a trionfare dal re e gli dirà: "La maestà vostra parla sempre dell'affetto e dello zelo di Khacan nel servirvi, e intanto lui ha mostrato quanto poco è degno di tale considerazione. Ha ricevuto diecimila dinàr per comprare una schiava, e ha veramente adempiuto bene la sua missione e nessuno ha mai visto una schiava tanto bella: ma invece di condurla a vostra maestà, ha giudicato più opportuno farne dono a suo figlio, dicendogli: 'Figlio, prendi questa schiava, essa è per te; la meriti più del re'. La cosa è accaduta nel modo che ho narrato alla maestà vostra, ve ne potrete convincere da voi medesimo".»

«Non vedete», soggiunse il visir, «che per tale discorso le genti del re possono venire a forzare la mia casa in ogni momento e a rapire la schiava?»
«Signore», rispose la donna a questo discorso di suo marito, «ammetto che la malvagità di Saouy è grande e che è capace di dare alla cosa l'interpretazione cattiva di cui mi parlate, qualora lo sapesse. Ma chi può sapere quello che accade nell'interno della nostra casa? Quando si supponesse, ed il re ve ne parlasse, non potete dire che, dopo aver bene esaminata la schiava, non l'avete trovata degna del re, come vi era sembrata dapprima, che il mercante vi ha ingannato, che essa è di una incomparabile bellezza, ma che non possiede lo spirito e la dottrina che vi avevano promesso? Il re crederà alle vostre parole: e Saouy avrà vergogna di vedere andare a vuoto il suo piano malvagio, come le altre volte che ha inutilmente cercato di disfarsi di voi. Rassicuratevi dunque, e se volete darmi retta mandate a chiamare i sensali, dite loro che non siete per nulla contento della bella Persiana, ed incaricateli di cercarvene un'altra.»

Siccome questo consiglio parve assai ragionevole al visir Khacan, egli si calmò un poco e si propose di seguirlo: ma non diminuì per nulla la sua collera contro il figlio Nur ed-Din, il quale non si fece vedere per tutta la giornata, e non osò nemmeno chiedere un asilo in casa di qualche amico, per timore che suo padre lo facesse cercare.

Andò dunque fuori dalla città e si rifugiò in un giardino dove non era mai stato, e dove non era conosciuto affatto e tornò solo tardi, quando cioè, sapeva che suo padre si era ormai ritirato. Si fece allora aprire la porta dalle schiave della madre, che lo fecero entrare senza rumore.

L'indomani uscì prima che suo padre si fosse alzato, prendendo le medesime precauzioni per tutto un mese con grandissimo suo dispiacere, tanto più che le schiave di sua madre gli dichiararono francamente che il visir suo padre persisteva nella collera e dichiarava di volerlo uccidere.

La moglie del visir sapeva dalle sue donne che Nur ed-Din ritornava ogni giorno, ma non osava pregare suo marito di perdonargli. Avendo finalmente deciso, un giorno, di tentare qualche cosa, disse al visir:

«Signore, io non ho osato finora prendermi la libertà di parlarvi di vostro figlio: ma oggi vi supplico di permettermi di chiedervi che cosa intendete fare di lui. Un figlio non può aver mancato verso suo padre più di quanto Nur ed-Din ha mancato verso di voi, privandovi di un grande onore e della soddisfazione di presentare al re una schiava tanto compita quanto la bella Persiana, lo confesso; ma dopo tutto, invece del male a cui non dovremmo più pensare, ve ne attirate addosso un altro assai più grande, al quale forse non pensate. Non temete che il mondo che è tanto maligno, cercando la ragione per cui vostro figlio si tiene lontano da voi, non indovini la vera causa che volete tenere nascosta? Se ciò accadesse voi sopportereste giustamente una sciagura, che tanto vi sta a cuore di evitare».

«Signora», rispose il visir, «quanto voi dite è vero, ma io non posso risolvermi a perdonare Nur ed-Din senza averlo punito come merita.»

«Sarà sufficientemente punito», soggiunse la moglie, «se farete a mio modo. Vostro figlio entra ogni notte in casa quando vi siete già andato a coricare. Aspettatelo stasera al suo arrivo e fingete di volerlo uccidere. Io verrò in suo soccorso e voi facendo in modo che egli creda di dovere la vita alle mie preghiere, l'obbligherete a prendere la bella Persiana a qualunque condizione vorrete perché egli l'ama, e la bella Persiana non l'odia certo.»

Essendogli piaciuto tale consiglio, Khacan lo mise in pratica: perciò prima che si aprisse a Nur ed-Din, si mise dietro la porta, e appena gli venne aperto si gettò su di lui, gettandolo a terra.

Nur ed-Din volse la testa e riconobbe suo padre col pugnale in mano, pronto a ucciderlo.

Sopraggiunse in quel momento la madre, e, trattenendo il visir per il braccio, esclamò:

«Che state per fare, signore?».

«Lasciatemi», rispose il visir, «voglio uccidere questo indegno figlio!»

«Ah, signore», soggiunse la madre, «uccidete me piuttosto; io non permetterò mai che vi sporchiate le mani col vostro sangue.»

Nur ed-Din profittò di quel momento, e con le lacrime agli occhi disse:

«Padre mio, imploro la vostra clemenza e la vostra misericordia! Deh! concedetemi il perdono che vi chiedo in nome di colui dal quale dovete attenderlo nei giorno in cui tutti compariremo davanti a lui!».

Khacan si lasciò strappare il pugnale di mano, e appena ebbe lasciato Nur ed-Din, costui si gettò ai suoi piedi e glieli baciò, per dimostrargli quanto si pentiva d'averlo offeso.

«Nur ed-Din», gli disse il visir, «ringrazia tua madre, in virtù delle cui preghiere ti perdono. Voglio anche darti la bella Persiana, ma a condizione che mi prometta con giuramento di non considerarla come una schiava, ma come la tua consorte perché ella è molto saggia, dotata di spirito e migliore di te, sono sicuro che modererà i tuoi trasporti giovanili.»

Nur ed-Din, che non avrebbe osato sperare di essere trattato con tanta indulgenza, ringraziò suo padre con tutta la riconoscenza immaginabile, e gli fece con tutto il cuore il giuramento richiestogli.

Egli e la bella Persiana furono contenti l'uno dell'altra, e il visir soddisfattissimo della loro buona unione.

Il visir Khacan non aspettava che il re gli parlasse della commissione che gli aveva data ma aveva gran cura di parlargliene spesso e di mostrargli le difficoltà che trovava nell'adempierla a dovere, e seppe insomma agire con tanta destrezza, che il re insensibilmente non vi pensò più.

Saouy aveva saputo qualche cosa dell'accaduto, ma Khacan era tanto nel favore del re che non osò arrischiarsi a parlargliene.

Un anno dopo questi fatti, Khacan, essendo andato al bagno, fu costretto da un affare urgente ad uscirne ancora tutto accaldato e l'aria fredda gli causò una congestione polmonare che lo costrinse a coricarsi con una gran febbre. La malattia si aggravò, e, comprendendo che non era lontano l'ultimo istante della sua vita, tenne il seguente discorso a Nur ed-Din che non l'abbandonava mai.

«Figlio mio, io non so se ho fatto buon uso delle grandi ricchezze che ho ricevuto da Dio, e ora esse non mi servono affatto per liberarmi dalla morte. La sola cosa che ti chiedo morendo, è di ricordarti della promessa che mi hai fatta a proposito della bella Persiana. Io muoio contento nella fiducia che non l'abbandonerai mai!»

Queste parole furono le ultime di Khacan.

La sua morte lasciò un grande lutto nella sua casa, alla corte e nella città.

Il re lo rimpianse come un ministro saggio, zelante e fedele, e tutta la città lo pianse come suo protettore e benefattore. Non s'erano mai visti funerali così imponenti a Bassora.

I visir, gli emiri e tutti i grandi della corte fecero a gara a portare la sua bara sulle spalle fino al luogo della sepoltura, e dai più ricchi ai più poveri tutti l'accompagnarono piangendo.

Nur ed-Din fu molto afflitto per la perdita di suo padre e restò per molto tempo senza vedere nessuno. Un giorno finalmente acconsentì si facesse entrare uno dei suoi intimi amici, il quale cercò di consolarlo, e, vedendolo disposto ad ascoltarlo, gli disse che dopo aver reso l'onore dovuto alla memoria di suo padre, era tempo di tornare nel mondo, di ricevere gli amici e di riprendere il posto che gli spettava per la sua nascita e i suoi meriti.

«Noi peccheremmo», aggiunse, «contro le leggi di natura, e anche contro le leggi civili, se, quando i nostri padri muoiono, non rendessimo loro i doveri che la tenerezza esige da noi: ma quando li abbiamo adempiuti, e non ci si può fare nessun rimprovero, siamo obbligati a riprendere lo stesso cammino di prima. Asciuga dunque le lacrime, e riprendi quell'aria di gaiezza, che ha sempre suscitato gioia dovunque tu sia stato.»

Il consiglio di quest'amico era ragionevolissimo: e Nur ed-Din avrebbe evitato tutte le disgrazie che gli accaddero in seguito se l'avesse seguito con moderazione.

Si lasciò persuadere senza fatica, offrì anche un pranzo al suo amico, e quando questi stava per andarsene, lo pregò di tornare l'indomani e di condurre tre o quattro amici comuni. Insensibilmente formò una brigata di dieci persone pressappoco della sua età, coi quali passava il tempo in banchetti e continui godimenti. E ogni giorno faceva grandi regali agli amici.

Qualche volta, per fare piacere ai suoi amici, Nur ed-Din faceva venire la bella Persiana, che obbediva sempre con devozione, ma senza approvare quella eccessiva generosità.

Ella glielo diceva francamente: «Io so che il visir tuo padre ti ha lasciato grandi ricchezze: ma per immense che possano essere, se continui in questo genere di vita, ne vedrai ben presto la fine. Si può di quando in quando invitare i propri amici e divertirsi con loro, ma se poi si prende ciò come abitudine giornaliera ci si avvia lungo il cammino dell'estrema miseria. Per il tuo onore e per la tua reputazione, faresti assai meglio a seguire l'esempio di tuo padre, e metterti in condizione di ottenere i grandi uffici che gli hanno acquistato tanta gloria».

Nur ed-Din ascoltava la bella Persiana ridendo: e quando lei terminava, le rispondeva, continuando a ridere.

«Bella mia, lasciamo questo discorso; parliamo piuttosto dei piaceri che mi attendono. Mio padre mi ha tenuto sempre in soggezione; è giusto che voglia godere la libertà tanto sospirata prima della sua morte. Avrò tutto il tempo per ridurmi alla vita regolata di cui mi parli; un uomo dell'età mia deve gustare tutti i piaceri della gioventù».

Ciò che contribuì definitivamente a dissestare gli affari di Nur ed-Din fu che non voleva sentir parlare di conti dal suo maestro di casa, mandandolo via ogni volta che costui si presentava col suo libro, e dicendogli:

«Va, va, io mi fido di te; abbi cura solamente di ottenere tutto a buon mercato».

«Voi siete il padrone, signore», rispondeva il maestro di casa, «ma permettete che vi ricordi il proverbio che dice: "Chi fa grandi spese e non conta, si trova alla fine ridotto alla mendicità senza essersene accorto". Voi non solo vi sobbarcate la grandissima spesa della vostra mensa, fate anche doni a piene mani, al che i vostri tesori non potrebbero bastare, quand'anche fossero grandi come montagne.»

«Va' ti dico», gli rispondeva Nur ed-Din, «io non ho bisogno di lezioni: continua a darmi da mangiare bene, e non ti preoccupare del resto.»

Gli amici di Nur ed-Din intanto erano molto assidui a far onore alla sua mensa, e non mancavano di cogliere l'occasione per profittare della sua prodigalità. Lo lodavano, lo lusingavano, e mettevano in evidenza perfino la minima delle sue azioni più indifferenti.

Soprattutto non trascuravano mai di magnificare quanto gli apparteneva e vi trovavano il loro tornaconto.

«Signore», gli diceva uno, «passai l'altro giorno per la terra che avete nel tal luogo; nulla di più magnifico né di meglio addobbato della casa, e il giardino annessovi è un paradiso di delizie.»

«Sono lieto che vi piaccia», rispondeva Nur ed-Din, «che si porti una penna, dell'inchiostro e della carta, perché io ve ne faccia dono.»

Agli altri, non appena gli vantavano qualche cosa che gli appartenesse, una casa, i bagni o luoghi pubblici per albergare stranieri, ne faceva dono.

La bella Persiana inutilmente gli faceva presente il danno che faceva a se medesimo; lui, invece di ascoltarla, continuava a spendere quanto gli restava.

Nur ed-Din non fece altro in tutto l'anno, se non spassarsela e divertirsi, regalando e dissipando gli immensi beni accumulati dai suoi predecessori, e dal buon visir suo padre.

Un giorno fu bussato alla porta della camera mentre stava a tavola coi suoi amici e, poiché aveva dato licenza agli schiavi per stare in libertà, uno degli amici di Nur ed-Din si alzò per andare ad aprire: ma questi lo prevenne e andò di persona.

Era il suo maestro di casa, e Nur ed-Din per sentire che cosa volesse, uscì dalla camera e chiuse la porta a metà.

L'amico che si era alzato ed aveva visto il maestro di casa, andò a mettersi tra la tenda e la porta e udì il maestro di casa tenere il seguente discorso al suo padrone:

«Signore, vi chiedo mille volte perdono se vengo ad interrompervi in mezzo ai vostri piaceri: ma quanto ho da comunicarvi mi sembra di tanta importanza, che ho creduto bene di prendermi questa libertà. Or ora ho terminato gli ultimi conti e ho trovato che quanto avevo previsto da lungo tempo e di cui vi ho avvertito più volte è accaduto: signore, io non ho più un soldo per fare le spese e anche gli altri fondi sono esauriti, e i vostri fittavoli e quelli che vi erano creditori mi hanno fatto chiaramente vedere che voi avete ceduto ad altri quello che essi avevano in affitto, e io non posso esigere nulla da loro in vostro nome. Ecco i miei conti, esaminateli, e se desiderate che io continui a servirvi, assegnatemi altri fondi, altrimenti permettetemi di andarmene».

Nur ed-Din fu talmente sorpreso da simile discorso, da non poter rispondere una parola.

L'amico che di nascosto ascoltava, e aveva inteso ogni cosa, partecipò agli altri quanto sapeva, dicendo loro:

«Bisogna profittare di questo avviso: per conto mio dichiaro che questo è l'ultimo giorno che mi vedrete in casa di Nur ed-Din».

«Se le cose stanno così», risposero gli altri, «noi non abbiamo più nulla da fare in casa sua.»

Nur ed-Din ritornò in quel momento, e per quanti sforzi facesse per riportare la gaiezza tra i convitati, nondimeno non poté dissimulare la verità così che essi non ebbero conferma di quanto avevano appreso.

S'era appena seduto, quando uno dei suoi amici si alzò dal suo posto, dicendogli:

«Mio caro, sono assai spiacente di non potermi più oltre trattenere in vostra compagnia; vi prego permettetemi di licenziarmi da voi».

«Quale affare vi costringe a lasciarmi così presto?», domandò Nur ed-Din.

«Amico», rispose quegli, «mia moglie ha partorito oggi, e voi non ignorate che la presenza di un marito è sempre necessaria in simili eventi.»

Ciò detto fece una grande riverenza e partì.

Poco dopo un altro si ritirò con un altro pretesto e i rimanenti fecero lo stesso l'uno dopo l'altro, così che Nur ed-Din rimase solo.

Tuttavia egli non sospettò affatto che i suoi amici avessero preso la risoluzione di non tornare più da lui e andò nell'appartamento della bella Persiana per comunicarle quanto gli aveva detto il suo maestro di casa.

«Signore», gli disse la bella Persiana, «permettetemi di dirvi che avete sempre voluto agire di testa vostra, ed ecco quello che è accaduto. Io non m'ingannavo quando vi predicevo la triste fine che dovevate aspettarvi. Quello che mi dispiace è che voi non vedete ancora quanto sia grave la situazione. Quando volevo dirvi il mio pensiero, voi mi rispondevate: "Godiamo e profittiamo della fortuna finché ci è favorevole, perché forse non sarà sempre altrettanto buona". Ma io non avevo torto quando vi rispondevo che noi stessi siamo gli artefici della nostra buona fortuna, con una saggia condotta. Voi non avete voluto ascoltarmi, e io sono stata costretta a lasciarvi fare quanto volevate.»

«Confesso», rispose Nur ed-Din, «di aver fatto male a non seguire i buoni consigli che mi davate con mirabile saggezza: ma se ho dissipato tutto il mio avere, l'ho fatto con degli amici che conosco da molto tempo, e che sono onesti e riconoscenti; sono sicuro che non mi abbandoneranno.»

«Signore», soggiunse la bella Persiana, «se non avete altra speranza che la riconoscenza dei vostri amici, essa è, credetemi, mal fondata, e col tempo mi saprete dire se m'inganno.»

«Bella Persiana», esclamò Nur ed-Din, «io ho migliore opinione di voi dei miei amici; voglio andarli a trovare fin da domani, prima che si prendano la pena di venire da me, secondo il solito, e vedrete che tornerò con una buona somma di danaro. Cambierò tenore di vita, e trarrò profitto da quel danaro con qualche buon affare.»

Nur ed-Din l'indomani non mancò di andare in casa dei suoi dieci amici che abitavano tutti nella stessa strada. Bussò alla prima porta dove stava uno dei più ricchi e gli rispose una schiava, la quale prima d'aprire, domandò chi fosse.

«Dite al vostro padrone, che è Nur ed-Din, figlio del defunto visir Khacan.»

La schiava, avendo aperto, l'introdusse in una camera, ed entrò in quella del suo padrone, per annunciargli la visita di Nur ed-Din.

«Nur ed-Din!», rispose il padrone con disprezzo, a voce così alta che Nur ed-Din l'udì, «va' a dirgli che non ci sono, e, tutte le volte che verrà gli dirai lo stesso.»

La schiava tornò dicendo a Nur ed-Din che aveva creduto che il suo padrone fosse in casa, ma che si era ingannata.

Nur ed-Din uscì confuso, esclamando:

«Ah! il perfido, il trist'uomo! Ieri si protestava il mio miglior amico e oggi mi tratta così indegnamente!».

Andò a bussare alla porta d'un altro amico che gli fece dire lo stesso, ed ottenne la medesima risposta da tutti gli altri fino al decimo, quantunque fossero tutti in casa.

Allora Nur ed-Din rientrò in se stesso, e riconobbe il suo irreparabile errore nell'aver avuto fiducia nei suoi falsi amici.

«E' proprio vero», disse tra sé con le lacrime agli occhi, «che un uomo felice rassomiglia a un albero carico di frutta. Finché ci sono frutti sull'albero gli stanno intorno per coglierne; appena non ce ne sono più tutti si allontanano e lo lasciano solo.»

Chiuse in sé la sua angoscia finché fu fuori di casa ma non appena fu giunto diede sfogo alla sua afflizione, e andò dalla bella Persiana.

«Ebbene, signore, siete convinto della verità che vi avevo predetta?»

«Ah! mia buona amica», esclamò, «voi m'avete predetto giustamente! Nemmeno uno ha voluto riconoscermi, vedermi, parlarmi; non avrei mai creduto di essere trattato in modo così crudele da gente che mi dovrebbe tanta riconoscenza e a cui ho donato tutto. Io non mi riconosco più e temo di commettere qualche azione indegna di me, nello stato deplorabile di disperazione in cui sono; aiutatemi con i vostri consigli!»

«Signore», aggiunse la bella Persiana, «non vedo altro riparo alla vostra sventura, se non di vendere i vostri schiavi e le vostre masserizie per vivere, finché il cielo vi mostri qualche altra strada per trarvi dalla miseria.»

Il rimedio parve estremamente duro a Nur ed-Din: ma che altro avrebbe potuto fare nello stato in cui era?

Vendette dapprima i suoi schiavi, bocche ormai inutili che gli sarebbero costate molto più di quello che poteva spendere.

Visse qualche tempo col denaro che ne aveva ricavato, e quando venne a mancare, fece portare le sue suppellettili al mercato pubblico, dove furono vendute a un prezzo assai inferiore al loro valore, quantunque ve ne fossero di preziosissime, che erano costate immense somme.

Con quello che ne ricavò, visse qualche tempo, ma alla fine non gli restò più nulla da cui poter ricavare altro denaro, e manifestò il suo dolore alla bella Persiana.
Nur ed-Din non s'aspettava la risposta che gli diede quella saggia donna.

«Signore», gli disse infatti, «io sono la vostra schiava, e sapete bene che il defunto visir vostro padre mi ha comprata per diecimila dinàr; so che sono diminuita di prezzo da allora, ma sono persuasa che posso essere venduta ancora bene. Pertanto conducetemi subito al mercato; con il denaro che ne trarrete, potrete andare a fare il mercante in qualche città dove non siate conosciuto, e così avrete il mezzo di vivere, se non nel lusso, almeno in modo da essere felice e contento.»

«Ah! leggiadra e bella Persiana», esclamò Nur ed-Din, «è possibile che abbiate potuto avere un simile pensiero? Con tante prove d'amore che vi ho dato, come potete credermi capace di tanta viltà? E quando anche l'avessi, questa colpevole viltà, potrei commetterla, dopo il giuramento che ho fatto al mio defunto padre di non vendervi mai? Io morirei piuttosto che mancare alla mia promessa e separarmi da voi che io amo, non quanto me stesso, ma più ancora. Facendomi una proposta tanto irragionevole, mi fate comprendere che non mi amate quanto io vi amo.»

«Signore», soggiunse la bella Persiana, «io sono convinta che voi mi amate quanto dite: e Dio sa se la passione che nutro per voi è inferiore alla vostra, e quanta ripugnanza sento nel farvi una simile proposta. Ma per ribattere ai motivi da voi addotti, non ho che da ricordarvi che necessità non ha legge. Io vi amo a un punto che non è possibile che voi mi amiate di più, e posso assicurarvi che non cesserei mai di amarvi, a qualunque padrone appartenessi, e non avrei altro piacere al mondo se non quello di riunirmi a voi appena i vostri affari vi permettessero di ricomprarmi, come spero. Questa è, lo riconosco, una necessità assai crudele, per voi e per me; ma non vedo altro mezzo per trarci dalla miseria.»

Nur ed-Din comprendendo quanto fosse vero ciò che la bella Persiana gli diceva, e non avendo altro mezzo per evitare una povertà ignominiosa, fu costretto ad adottare la soluzione che gli aveva proposta.

Perciò la condusse al mercato dove si vendevano le schiave, con un dolore indicibile, e si rivolse a un sensale chiamato Hagi Hassan, a cui disse:
«Ecco una schiava che voglio vendere; dimmi, ti prego, quanto vale».

Appena ella si fu tolta il velo che le copriva il viso, Hagi Hassan al vederla disse con ammirazione:

«Signore, m'inganno forse? Non è questa la schiava che il defunto visir vostro padre comprò per diecimila dinàr?».

Nur ed-Din glielo confermò; e Hagi Hassan, facendogli sperare di ricavarne una grossa somma, gli promise d'adoperare tutta la sua arte, per farla comprare al più alto prezzo possibile.

Hagi Hassan e Nur ed-Din uscirono dalla camera dove il primo rinchiuse la bella Persiana.

Il sensale andò poi a cercare i mercanti, ma erano tutti occupati a comprare schiave greche, francesi, africane, barbare, per cui fu obbligato ad aspettare che avessero finiti i loro affari.

Appena ebbero terminato e si furono radunati, disse loro con un'allegria che appariva sul suo viso e nei suoi gesti:

«Tutto quello che è tondo non è avellana; tutto quello che è lungo non è fico; tutto quello che è rosso non è carne, e tutte le uova di gallina non sono fresche. Io voglio dire che avete venduto e comprato molte schiave in vita vostra, ma non ne avete mai vista una che possa paragonarsi a quella che vi annuncio: essa è la perla delle schiave. Venite, seguitemi, e ve la farò vedere perché vorrei che voi stessi mi diceste a che prezzo devo venderla».

Essi la videro con sorpresa, e convennero unanimamente che non si poteva metterla a un prezzo di partenza minore di quattromila dinàr.

Usciti dalla camera, Hagi Hassan li seguì, dopo aver chiusa la porta, e gridò ad alta voce, senza allontanarsi:

«A quattromila dinàr la schiava bella Persiana!».

Nessuno dei mercanti aveva ancora parlato; essi si consigliavano tra loro sull'aumento che potevano fare, quando appare il visir Saouy, il quale, come ebbe visto Nur ed-Din, disse tra sé:

«A quel che sembra Nur ed-Din vende ancora qualche oggetto per comprare una schiava».

Egli avanzò e Hagi Hassan gridò per la seconda volta:

«A quattromila dinàr la schiava bella Persiana!».

Questo prezzo straordinario fece pensare a Saouy che la schiava dovesse essere di una bellezza tutta particolare, e subito provò una grandissima curiosità di vederla; guidò allora il suo cavallo verso Hagi Hassan, circondato dai mercanti, dicendogli:

«Apri la porta e fammi vedere la schiava».

Non c'era allora l'abitudine di far vedere una schiava ad un privato, dopo che i mercanti l'avevano vista e stavano contrattando: ma i mercanti non ebbero il coraggio di far valere il loro diritto contro l'autorità d'un visir, e Hagi Hassan non poté dispensarsi dall'aprire la porta e di far segno alla bella Persiana di accostarsi, affinché Saouy potesse vederla, senza scendere da cavallo.

Saouy restò assai meravigliato quando vide una schiava di sì straordinaria bellezza, e sapendo il nome del sensale per aver avuto affari con lui, così gli disse:

«Hagi Hassan, non è a quattromila dinàr che la vendi?».

«Sì signore», rispose quello, «i mercanti hanno convenuto, un momento fa, di indire l'asta partendo da questo prezzo. Io però aspetto di arrivare a un prezzo assai più alto!»

«Io darò il danaro», soggiunse Saouy, «se nessuno offre una somma maggiore.»

E guardò i mercanti in modo che faceva chiaramente comprendere che non voleva che aumentassero il prezzo.

Egli era tanto temuto da tutti, che si guardarono bene dall'aprir bocca nemmeno per protestare per la soperchieria che faceva sui loro diritti.

Quando il visir Saouy ebbe atteso qualche tempo, vedendo che nessun mercante aumentava il prezzo, disse ad Hagi Hassan:

«Ebbene, che aspetti? Va' a trovare il padrone della schiava e concludi con lui a quattromila dinàr».

Non sapeva ancora che apparteneva a Nur ed-Din.

Hagi Hassan, che aveva chiuso la porta della camera, andò ad abboccarsi con Nur ed-Din, e gli disse:

«Signore, sono assai spiacente di venire ad annunziarvi una triste notizia, la vostra schiava sta per essere venduta per nulla».

«Per quale ragione?», domandò Nur ed-Din.

«Signore», aggiunse Hagi Hassan, «la cosa aveva preso dapprima una buona piega. Appena i mercanti videro la vostra schiava m'incaricarono senz'altro di annunciare il compenso iniziale di quattromila dinàr. Mentre gridavo questo prezzo, s'è trovato a passare il visir Saouy e la sua presenza ha chiuso la bocca ai mercanti; eppure avrebbero fatto salire il prezzo almeno a quanto costò al defunto visir vostro padre. Saouy vuol dare soltanto quattromila dinàr, e mio malgrado vengo a portarvi una tale proposta. La schiava è vostra: ma non vi consiglierei di cederla a quel prezzo, perché so benissimo che la schiava vale infinitamente di più e che il visir è assai malvagio e immaginerà qualche altro mezzo per esimersi dal pagarvi la somma.»

«Hagi Hassan», rispose Nur ed-Din, «ti sono obbligato del tuo consiglio; ho gran bisogno di denaro, ma morirei nella più squallida miseria, piuttosto che cederla a lui. Io ti domando una sola cosa: siccome tu sai tutti gli usi e tutti gli intrighi, dimmi solamente quel che debbo fare per impedirgli di acquistare la mia schiava.»

«Nulla di più facile, signore», soggiunse Hagi Hassan, «fingete di essere sdegnato contro la vostra schiava, e di aver giurato di condurla al mercato non tanto con l'intenzione di venderla, quanto per adempiere al giuramento; il che soddisferà ciascuno, e Saouy non avrà nulla da dire. Venite dunque, e quando io la presenterò a Saouy come se voi aveste acconsentito all'affare riprendetela, dandole qualche percossa, e riconducetela via.»

«Ti ringrazio», rispose Nur ed-Din, «vedrai che seguirò bene il tuo consiglio.»

Hagi Hassan ritornò alla camera, l'aprì ed entrò; dopo aver avvertito la bella Persiana di non meravigliarsi di ciò che sarebbe accaduto, la prese per il braccio e la condusse dal visir Saouy, che stava sempre davanti alla porta, e presentandogliela gli disse:

«Signore, ecco la schiava, ella è vostra, prendetela!».

Hagi Hassan non aveva ancora terminato queste parole, che Nur ed-Din, impadronitosi della bella Persiana, la trasse a sé, e dandole uno schiaffo, le disse ad alta voce per essere udito da tutti:

«Vieni qua, impertinente, e torna da me! Per il tuo pessimo carattere ti avevo giurato di condurti al mercato, ma non già di venderti. Io ho ancora bisogno di te e avrò sempre tempo di giungere a questa determinazione quando non mi resterà nient'altro da fare».

Il visir Saouy fu grandemente sdegnato da questa azione di Nur ed-Din.

«Miserabile dissoluto, vorresti darmi a intendere che ti resta altro da vendere oltre questa schiava?»

Nello stesso tempo spinse il suo cavallo verso di lui per togliergli la bella Persiana: ma Nur ed-Din, punto sul vivo dall'oltraggio fattogli, lasciò la bella Persiana ingiungendole di aspettarlo, e, afferrata la briglia del cavallo, lo fece rinculare di tre o quattro passi, dicendo al visir:

«Infame e birbante, io ti toglierei la vita in questo stesso momento se non ne fossi trattenuto dal rispetto per tutti i presenti!».

Siccome il visir Saouy non era amato da nessuno, ma al contrario era odiato da tutti, non vi fu uno di coloro che erano presenti che non avesse desiderio di vederlo mortificare.

Fecero capire a Nur ed-Din con i gesti che poteva vendicarsi come gli sarebbe piaciuto, perché nessuno si sarebbe mischiato nella loro questione.

Saouy volle fare uno sforzo per obbligare Nur ed-Din a lasciare la briglia del suo cavallo: ma Nur ed-Din, giovane di forze erculee, incoraggiato dalla benevolenza degli spettatori, lo tirò giù da cavallo, lo percosse mille e più volte, e gli fece uscir sangue dalla testa battendogliela contro il selciato.
I dieci schiavi, che accompagnavano Saouy, volevano sguainare le sciabole e scagliarsi su Nur ed-Din, ma i mercanti vi si opposero dicendo loro:

«Che pretendete di fare? Non vedete che se l'uno è visir, l'altro è figlio di visir? Lasciateli risolvere tra loro le loro questioni, perché forse un giorno si accorderanno: ma se uccidete Nur ed-Din, credete che il vostro padrone, per potente che sia, possa sottrarvi alla giustizia?».

Nur ed-Din, stanco finalmente di picchiare Saouy, lo lasciò sul selciato e riprese la bella Persiana, tornandosene a casa sua tra gli applausi del popolo.

Saouy, quasi in fin di vita per le percosse ricevute, si alzò con molta fatica aiutato dai suoi servi, essendo inoltre molto mortificato nel vedersi imbrattato di fango e di sangue. Appoggiandosi alle spalle di due schiavi andò in quello stato al palazzo, dando spettacolo a tutti, con una confusione tanto più grande in quanto nessuno lo compiangeva. Quando fu sotto l'appartamento del re, si mise a gridare in modo compassionevole, e il re avendolo fatto chiamare al suo cospetto, gli chiese chi l'avesse maltrattato e ridotto nello stato in cui era.

«Sire», esclamò Saouy, «bisogna essere nel favore della maestà vostra, e partecipare in qualche modo ai suoi sacri consigli, per venir così indegnamente trattato come lo sono stato io.»

«Lasciamo questi discorsi», rispose il re, «e ditemi solamente come stanno le cose, e chi è l'offensore, che saprò far pentire se ha torto.»

«Sire», rispose Saouy raccontando la cosa tutta a suo favore, «io ero andato al mercato delle schiave per comprare una cuoca di cui ho bisogno: giuntovi, ho trovato che vi si vendeva una schiava a quattromila dinàr. Mi sono fatto mostrare la schiava, la più bella che si sia mai vista e che si possa vedere, e non appena la vidi, ne provai grandissima soddisfazione e chiesi a chi appartenesse; seppi che Nur ed-Din, figlio del defunto visir Khacan, voleva venderla.

La maestà vostra si ricorderà senz'altro d'aver fatto contare diecimila dinàr a quel visir, due o tre anni fa e d'averlo incaricato di comprare una schiava con quella somma; egli l'adoperò per comprare questa, ma invece di condurla alla maestà vostra, non giudicandola degna, ne fece un dono a suo figlio. Dopo la morte del padre, il figlio ha bevuto, mangiato e dissipato quanto aveva, e gli è restato solo questa schiava, che aveva risoluto di vendere, e che di fatto si vendeva in suo nome. Io l'ho fatto venire davanti a me, e senza parlargli della disonestà, o piuttosto della perfidia di suo padre verso la maestà vostra, gli ho detto nel modo più cortese:

"Nur ed-Din, i mercanti, come so, hanno messo la vostra schiava in vendita a quattromila dinàr. Io non dubito che essi possano salire a un prezzo assai più alto, ma seguite il mio consiglio, datela a me per quattromila dinàr, e io la comprerò per farne un dono al nostro re, al quale parlerò anche in favore vostro, il che vi varrà infinitamente più di quello che i mercanti potrebbero darvene".

Invece di rispondere cortesemente alla mia gentile proposta, l'insolente mi guardò ferocemente e mi disse:

"Iniquo vecchio, darei la mia schiava in dono a un giudeo, anziché venderla a te!".

"Ma Nur ed-Din", risposi io, senza adirarmi benché ne avessi motivo, "voi non considerate che parlando in tal modo fate ingiuria al re, il quale ha fatto vostro padre ciò che era, come pure ha fatto me quel che sono."

Queste parole, che avrebbero dovuto raddolcirlo, al contrario lo sdegnarono di più, sì che scagliatosi su di me come una furia, senza nessuna considerazione né per i miei anni, né per la mia dignità, m'ha tirato giù dal cavallo, m'ha battuto fino a stancarsi, e m'ha ridotto nello stato in cui la maestà vostra mi vede. Io vi supplico di considerare che per causa sua ho sofferto grande oltraggio!»

Ciò detto chinò la testa e si volse per lasciar scorrere abbondanti lacrime.

Il re, sdegnato contro Nur ed-Din in seguito a questo discorso, lasciò scorgere sul volto i segni di una grande collera, e voltosi al capitano delle guardie che gli era vicino, gli disse:

«Prendete quaranta uomini della mia guardia, e quando avrete saccheggiato la casa di Nur ed-Din, e dato ordine di demolirla, me lo condurrete qui con la sua schiava».

Il capitano delle guardie non era ancora fuori dell'appartamento del re, che un usciere della camera il quale aveva udito quest'ordine, lo prevenne.

Egli si chiamava Sangiar, ed era stato schiavo del visir Khacan, il quale l'aveva introdotto nella casa del re, dove era avanzato di grado.

Sangiar, pieno di riconoscenza per il suo antico padrone, e di affetto per Nur ed-Din che aveva visto nascere, conoscendo oltre a ciò da lungo tempo l'odio di Saouy per la famiglia di Khacan, non aveva potuto udire l'ordine senza fremere.

«L'azione di Nur ed-Din», disse tra sé, «non può essere tanto nera quanto Saouy l'ha raccontata; il re è ora prevenuto e farà morire Nur ed-Din senza dargli nemmeno il tempo di giustificarsi.»

Fu tanto sollecito, che giunse a tempo ad avvertirlo di quanto era accaduto dal re, dandogli così tempo di mettersi in salvo con la bella Persiana.

Bussò alla porta in modo da obbligare Nur ed-Din, il quale non aveva più servi da molto tempo, ad andare ad aprire egli stesso, senza por tempo in mezzo.

«Mio caro signore», gli disse Sangiar, «non siete più sicuro a Bassora: partite, e salvatevi senza perdere un momento.»

«Perché mai?», rispose Nur ed-Din, «che cosa mi obbliga a partire?»

«Partite vi dico», soggiunse Sangiar, «e conducete la vostra schiava con voi. Saouy ha raccontato al re, nel modo che gli è sembrato più opportuno, quello che è accaduto tra voi e lui, e il capitano delle guardie viene dietro a me con quaranta soldati per impadronirsi di voi e di lei. Prendete questi quaranta dinàr perché possiate cercarvi un asilo: ve ne darei di più, se ne avessi con me. Scusatemi se non rimango più a lungo: io vi lascio mio malgrado per vantaggio vostro e mio, premendomi che il capitano delle guardie non mi veda qui.»

Sangiar dette appena a Nur ed-Din il tempo di ringraziarlo e partì.

Nur ed-Din andò ad avvertire la bella Persiana della necessità di partire immediatamente; ella non fece che mettersi il velo, e uscirono dalla casa.

Ebbero non solo la fortuna di uscire di città senza che nessuno s'accorgesse della loro fuga, ma anche quella di giungere all'imboccatura dell'Eufrate e di imbarcarsi sopra un bastimento pronto a levare l'ancora.

Difatti, appena giunti, il capitano stava sul cassero in mezzo ai passeggeri, cui domandava:

«Figli, siete qui tutti? Qualcuno di voi ha per caso dimenticato qualche cosa in città?».

Ciascuno rispose che si poteva partire quando gli fosse piaciuto.

Nur ed-Din non appena imbarcato, chiese dove fosse diretta la nave e fu lieto di sapere che andava a Bagdàd.

Il capitano fece levare l'àncora, e la nave si allontanò da Bassora con un vento favorevolissimo.

Ed ecco quello che avvenne a Bassora mentre Nur ed-Din fuggiva la collera del re, con la bella Persiana.

Il capitano delle guardie giunse alla casa di Nur ed-Din e bussò alla porta.

Quando vide che nessuno apriva, la fece atterrare e tosto i soldati entrarono cercando in tutti i più reconditi bugigattoli, senza trovare né Nur ed-Din, né la schiava.

Mentre si saccheggiava e si demoliva la casa, il capitano delle guardie andò a portare la notizia al re, il quale disse:

«Che si cerchino in qualunque luogo, poiché io voglio averli tra le mani».
Il capitano delle guardie andò a fare nuove perquisizioni, ed il re accomiatò onorevolmente il visir Saouy, dicendogli:

«Andate a casa vostra e non pensate ai maltrattamenti di Nur ed-Din, perché vi vendicherò io della sua insolenza!».

Per averlo più sicuramente nelle mani, il re fece annunciare dai banditori pubblici che avrebbe dato mille dinàr a colui che gli avesse condotto Nur ed-Din e la sua schiava, e che avrebbe fatto punire severamente coloro che li avessero nascosti. Ma, ad onta di tutte le precauzioni prese e di tutte le perquisizioni fatte, non gli fu possibile averne notizia: e il visir Saouy non ebbe altra consolazione fuorché di sapere che il re aveva sposato la sua causa.

Nur ed-Din e la bella Persiana intanto avanzavano e continuavano il cammino con tutta la fortuna possibile.

Approdarono finalmente a Bagdàd: e il capitano, appena ebbe scorta la città, lieto d'aver finito il suo viaggio, esclamò rivolto ai passeggeri:

«Figli, eccola questa grande e meravigliosa città dove c'è un afflusso generale e perpetuo da tutti gli altri paesi dell'universo. Voi vi trovate un popolo immenso, e non vi soffrirete né il freddo insopportabile dell'inverno, né il calore eccessivo dell'estate, godendovi una primavera eterna con i suoi fiori e con le frutta deliziose dell'autunno!».

Quando la nave fu all'àncora, i passeggeri sbarcarono, andando ciascuno dove doveva albergare.

Nur ed-Din donò cinque dinàr per il suo viaggio, e sbarcò anch'egli, insieme alla bella Persiana: ma non essendo mai stato a Bagdàd non sapeva dove andare ad albergare.

Camminarono per molto tempo lungo i giardini sulle sponde del Tigri, finché giunsero ad uno, chiuso da un lungo muro. Arrivando in fondo, scorsero una lunga strada ben selciata, e videro la porta d'un giardino con una bella fontana vicino.

La porta assai bella, era chiusa, con un vestibolo aperto, dove c'era da ciascun lato un sofà.

«Ecco un luogo assai comodo», disse Nur ed-Din alla bella Persiana. «La notte s'avvicina, e abbiamo mangiato prima di sbarcare. Io sono del parere di passare la notte qui, e domani avremo tempo di cercarci un albergo.»

«Voi sapete, signore», rispose la bella Persiana, «che io non voglio se non quello che volete voi; perciò non andiamo oltre, se voi desiderate così.»

Bevvero ciascuno un poco d'acqua alla fontana, e salirono sopra uno dei due sofà, dove rimasero per qualche tempo.

Il sonno li vinse finalmente, e s'addormentarono al piacevole mormorio dell'acqua.

Il giardino apparteneva al califfo, e vi era in mezzo un gran padiglione chiamato il «Padiglione dei dipinti» perché il suo principale ornamento consisteva in dipinti di stile persiano, di mano di diversi pittori, che il califfo aveva fatto venire espressamente; il grande e superbo salone, formato dal padiglione, era rischiarato da ottanta finestre con un candelabro a ciascuna di esse, e gli ottanta candelabri si accendevano solo quando il califfo vi andava a passare la sera, o quando il tempo era così tranquillo che non c'era neppure un alito di vento.

Essi facevano una piacevole illuminazione che si scorgeva da lontano dalla campagna circostante e da gran parte della città. C'era quel giorno solamente un guardaportone che era un ufficiale molto vecchio e si chiamava Shaykh Ibrahìm.

Il califfo in persona lo aveva messo a quel compito per ricompensa.

Il califfo gli aveva raccomandato di non lasciar entrare nessuno nel giardino e soprattutto di non permettere a nessuno di sedersi sui due sofà fuori dalla porta, perché rimanessero sempre puliti, castigando quelli che vi avesse trovato.

Un affare aveva obbligato il guardaportone a uscire e non era ancora ritornato.

Finalmente arrivò, molto prima che fosse notte fonda, e si accorse che due persone dormivano sopra uno dei sofà, con la testa protetta da fazzoletti per ripararsi dalle zanzare.

«Bene!», disse Shaykh Ibrahìm, «ecco due persone che contravvengono alla proibizione del califfo; è quindi necessario insegnar loro il rispetto che gli debbono.»

Aprì la porta senza far rumore, e un momento dopo ritornò con un grosso bastone in mano, e con le maniche rimboccate.

Era sul punto di picchiare l'uno e l'altra con quanta forza aveva, ma si trattenne, dicendo fra sé:

«Shaykh Ibrahìm, tu stavi per picchiarli, senza considerare che forse sono stranieri, che non sanno dove andare ad alloggiare e che ignorano la proibizione del califfo; è meglio quindi che io sappia prima chi sono».

Alzò con grande precauzione il fazzoletto che copriva loro la testa e rimase meravigliato al vedere un giovane e una giovane tanto belli; poi destò Nur ed-Din, tirandolo un poco per i piedi.

Nur ed-Din alzò subito il capo, e appena ebbe visto un vecchio con una lunga barba bianca, si levò a sedere, gli prese la mano e gliela baciò, dicendogli:

«Buon padre, che il cielo vi conservi; desiderate qualche cosa?».

«Figlio mio», rispose Shaykh Ibrahìm, «chi siete? Da dove venite?»

«Siamo stranieri giunti or ora», soggiunse Nur ed-Din, «e vorremmo passare la notte qui, fino a domani.»

«La passereste assai male qui», riprese Shaykh Ibrahìm. «Venite, entrate, vi farò coricare comodamente, e la vista del giardino che è bellissimo, vi rallegrerà mentre è ancora giorno.»

«E questo giardino appartiene a voi?», domandò Nur ed-Din.

«Appartiene a me», rispose Shaykh Ibrahìm sorridendo, «è una eredità avuta da mio padre; entrate, vi dico, e non vi dispiacerà di vederlo.»

Nur ed-Din si alzò, mostrando a Shaykh Ibrahìm quanto gli fosse grato della sua cortesia, ed entrò nel giardino con la bella Persiana.

Shaykh Ibrahìm chiuse la porta e, camminando davanti a loro, li condusse in un luogo da cui videro pressappoco con un colpo d'occhio la disposizione, la grandezza e la bellezza del giardino.

Nur ed-Din aveva visto molti bei giardini, ma mai di simili a questo. Quando ebbe ben guardato tutto quanto ed ebbe passeggiato in alcuni viali, si rivolse al custode e gli domandò come si chiamasse.

Appena quello gli ebbe risposto che si chiamava Shaykh Ibrahìm:

«Shaykh Ibrahìm, vi confesso che è meraviglioso», disse, «Dio ve lo conservi lungo tempo. Non possiamo ringraziarvi abbastanza del favore che ci avete fatto, permettendoci d'entrare in un luogo così delizioso; è giusto che ve ne mostriamo la nostra riconoscenza in qualche modo. Tenete, ecco due dinàr d'oro; io vi prego di far acquistare qualche cosa da mangiare perché ne godiamo insieme».

Alla vista dei due dinàr, Shaykh Ibrahìm, che amava molto quel metallo, sorrise nella sua barba, poi li prese e lasciò Nur ed-Din e la Persiana, per andare ad eseguire la commissione; poiché era solo, disse tra sé con molta gioia:

«Ecco della brava gente che avrei avuto gran torto a maltrattare e scacciare: darò loro da mangiare da principi con la decima parte di questo denaro, ed il resto rimarrà a me, per la mia fatica».

Mentre Shaykh Ibrahìm andava a procurarsi di che cenare per i suoi ospiti, Nur ed-Din e la bella Persiana passeggiarono nel giardino e giunsero al «Padiglione dei dipinti» che stava nel mezzo.

Si fermarono dapprima a contemplare la mirabile architettura, la grandezza e la altezza, e dopo averne fatto il giro, guardandolo da tutti i lati, salirono fino alla porta del salone per una scala di marmo bianco, ma la trovarono chiusa.

Nur ed-Din e la bella Persiana ne discendevano, quando Shaykh Ibrahìm giunse carico di viveri.

«Shaykh Ibrahìm», gli disse Nur ed-Din con stupore, «non ci avete detto che questo giardino vi appartiene?»

«Io l'ho detto e lo ripeto», replicò Shaykh Ibrahìm, «perché mi fate questa domanda?»

«E questo superbo padiglione», aggiunse Nur ed-Din, «è anch'esso vostro?»

Shaykh Ibrahìm non s'aspettava quest'altra domanda e rimase interdetto.

«Se dico che non è mio», pensava, «mi domanderanno subito come può essere che io sia padrone del giardino e non del padiglione.»

E siccome aveva finto di essere il padrone del giardino, così finse egualmente di esserlo del padiglione.

«Figlio mio», rispose, «il padiglione è nel giardino, per cui l'uno e l'altro mi appartengono.»

«Se le cose stanno così», riprese allora Nur ed-Din, «e se desiderate ancora che siamo ospiti vostri questa notte fateci, ve ne supplico, la grazia di farcene vedere l'interno; a giudicare dall'esterno deve essere stupendo.»

Sembrò scortese a Shaykh Ibrahìm rifiutare a Nur ed-Din il favore che gli domandava dopo avergliene già concessi molti altri. Oltre a ciò considerò che il califfo non avendo mandato ad avvertirlo, come era solito, non sarebbe venuto quella sera; poteva quindi farvi mangiare i suoi ospiti, e lui pure con loro. Posò i viveri che aveva portato sul primo gradino della scala e andò a cercare la chiave, nella casa dove abitava, poi, ritornato con una candela, aprì la porta.

Nur ed-Din e la bella Persiana entrarono nel salone e lo trovarono così sorprendente che non potevano trattenersi dall'ammirarne la bellezza e la ricchezza.

Difatti, senza parlare dei dipinti, vi erano sofà magnifici, e candelabri che pendevano a ciascuna finestra, e oltre a ciò v'era tra ciascuna di queste un braccio d'argento con una torcia. E Nur ed-Din non poté vedere tutti quegli oggetti senza ricordarsi dello splendore in cui aveva vissuto e senza sospirare.

Intanto Shaykh Ibrahìm portò i viveri, preparò la tavola, e, quando tutto fu pronto, Nur ed-Din, la bella Persiana e lui stesso sedettero e mangiarono insieme.

Quando ebbero terminato, e si furono lavate le mani, Nur ed-Din aprì una finestra e chiamò la bella Persiana, dicendole:

«Avvicinatevi e ammirate con me lo spettacolo straordinario e la bellezza del giardino al chiaro di luna; niente di più delizioso!».

Essa s'avvicinò, e godettero insieme di quello spettacolo mentre Shaykh Ibrahìm sparecchiava la tavola.

Quando Shaykh Ibrahìm ebbe terminato e raggiunse i suoi ospiti, Nur ed-Din gli chiese se avesse qualche bevanda da offrir loro.

«Che bevanda vorreste?», rispose Shaykh Ibrahìm. «Del sorbetto? Ne ho di squisiti ma voi sapete bene, figlio mio, che non si beve il sorbetto dopo cena.»

«Lo so bene», rispose Nur ed-Din, «ma non è il sorbetto che vi chiediamo, ma un'altra bevanda, e mi meraviglio che non m'intendiate.»

«Dunque parlate del vino?», replicò Shaykh Ibrahìm.

«Avete indovinato; se ne avete, favorite portarcene una bottiglia. Voi sapete che se ne beve dopo cena per passare il tempo finché ci si corica.»

«Dio mi guardi dall'avere vino in casa mia», esclamò Shaykh Ibrahìm, «e anche da avvicinare un luogo in cui ve ne fosse! Un uomo come me che ha fatto il pellegrinaggio alla Mecca quattro volte, ha rinunciato al vino per tutta la vita!»

«Per altro ci fareste un gran piacere procurandocene», rispose Nur ed-Din, «e se ciò non vi reca pena, io ve ne insegnerò il mezzo senza che dobbiate entrare nella taverna, e mettere mano al recipiente che lo contiene.»

«A questa condizione lo farò», rispose Shaykh Ibrahìm, «ditemi solamente in qual modo.»

«Abbiamo visto un asino attaccato all'ingresso della porta del vostro giardino», disse allora Nur ed-Din, «e a quel che sembra è vostro. Tenete, ecco altri due dinàr d'oro, prendete l'asino con i suoi panieri, ed andate alla prima taverna, accostandovi solo quel tanto che vi sembrerà opportuno, date qualche cosa al primo venuto e pregatelo d'andare fino all'osteria con l'asino, di prendervi due brocche di vino, di metterle una in un paniere e l'altra nell'altro, e di ricondurvi l'asino dopo d'aver pagato. Voi non avrete che da far venire l'asino sin qui, poi prenderemo noi le brocche dai panieri. In tal modo non farete nulla che possa recarvi la minima ripugnanza.»

I due dinàr d'oro che Shaykh Ibrahìm ricevette, ebbero un grande potere sul suo animo.

«Ah! figlio mio, come la sapete lunga!», esclamò, quando Nur ed-Din ebbe terminato. «Senza di voi non avrei mai pensato a questo mezzo per farvi avere del vino senza scrupolo.»

Li lasciò, per andare ad eseguire la commissione.

Appena fu di ritorno, Nur ed-Din discese, tolse le brocche dai panieri e le portò nel padiglione.

Shaykh Ibrahìm ricondusse l'asino al luogo dove l'aveva preso, e quando fu ritornato, Nur ed-Din gli disse:

«Non sappiamo come ringraziarvi della pena che vi siete presa, ma ci manca ancora qualche cosa».

«E che», rispose Shaykh Ibrahìm, «che posso fare ancora per voi?»

«Non abbiamo tazze», soggiunse Nur ed-Din, «e ci piacerebbe anche avere della frutta, se ne aveste.»

«Non avete che da parlare», replicò Shaykh Ibrahìm, «non vi mancherà nulla di tutto ciò che potete desiderare.»

Shaykh Ibrahìm scese, e in poco tempo preparò loro una tavola coperta di bella porcellana colma di parecchie qualità di frutta, con tazze d'oro e d'argento da scegliere: e quando ebbe loro chiesto se avessero bisogno di qualche altra cosa, si ritirò senza voler restare, benché lo pregassero insistentemente.

Nur ed-Din e la bella Persiana si misero a tavola, e cominciarono a bere, trovando il vino eccellente.

«Ebbene! cara mia», disse Nur ed-Din alla bella Persiana, «non siamo fortunati nell'essere stati portati in un luogo così piacevole ed ameno? Godiamoci e ristoriamoci dalle fatiche del viaggio. La mia felicità non può essere più grande di così, con voi da un lato e una tazza di vino dall'altra!»

Bevvero parecchie volte, conversando piacevolmente, e cantando a turno qualche canzone.

Poiché avevano bellissime voci, specialmente la bella Persiana, il loro canto attirò Shaykh Ibrahìm che li ascoltò a lungo con gran piacere, stando sulla scala, senza farsi vedere.

Finalmente si mostrò, facendo capolino dalla porta.

«Coraggio, signore», disse a Nur ed-Din, che credeva già ubriaco, «sono lieto di vedervi così allegro.»

«Ah! Shaykh Ibrahìm», esclamò Nur ed-Din rivolgendosi a lui, «quanto siete bravo e quanto vi siamo riconoscenti! Non oseremmo pregarvi di bere una coppa, ma entrate. Venite, avvicinatevi, e fateci almeno l'onore di tenerci compagnia.»

«Continuate, continuate», rispose Shaykh Ibrahìm, «io mi contento del piacere di ascoltare le vostre belle canzoni», e così dicendo, si ritirò.

La bella Persiana si accorse che Shaykh Ibrahìm si era fermato sulla scala e ne avvertì Nur ed-Din, dicendogli anche:

«Signore, egli mostra una grande avversione per il vino; ma io non dispero di fargliene bere, se volete fare quello che vi dirò».

«Cosa?», chiese Nur ed-Din, «non avete che da parlare, e farò tutto quello che vorrete.»

«Persuadetelo solamente a entrare e restare con noi», disse, «dopo qualche tempo versategli del vino e presentategli la tazza; se rifiuta, bevete voi, e poi fate finta di dormire, e io farò il resto.»

Nur ed-Din comprese l'intenzione della bella Persiana e disse a Shaykh Ibrahìm:

«Noi siamo vostri ospiti, voi ci avete accolto con la maggior cortesia del mondo; vorrete ora rifiutarci il piacere di onorarci della vostra compagnia? Non vogliamo che beviate, ma solamente che ci facciate il piacere di starvene con noi».

Shaykh Ibrahìm si lasciò persuadere e si sedette sulla sponda del sofà più vicino alla porta.

«Non siete comodo là e noi non possiamo avere l'onore di vedervi», disse allora Nur ed-Din, «avvicinatevi, ve ne supplico, e sedetevi presso la signora, che ne sarà lieta.»

«Ebbene, farò quello che vi piacerà», disse Shaykh Ibrahìm.

E avvicinandosi sorridente per il piacere di accostarsi a una donna così bella, andò a sedersi vicino alla bella Persiana.

Nur ed-Din la pregò di cantare una canzone per celebrare l'onore che Shaykh Ibrahìm faceva loro; essa ne cantò una, che lo mandò in estasi.

Quando la bella Persiana ebbe terminato di cantare, Nur ed-Din versò del vino in una tazza e la presentò a Shaykh Ibrahìm dicendogli:

«Bevete una coppa alla nostra salute, ve ne prego».

«Signore», rispose Shaykh Ibrahìm, come se fosse spaventato al solo vedere il vino, «vi supplico di scusarmi, ma vi ho già detto che ho rinunciato da molto tempo al vino.»

«Poiché assolutamente voi non volete bere alla nostra salute, permettete che io beva alla vostra!»

Mentre Nur ed-Din beveva, la bella Persiana tagliò a metà una mela e ne offrì una parte a Shaykh Ibrahìm, dicendogli:

«Voi non avete voluto bere, ma non credo che facciate difficoltà ad assaggiare questa mela, che è eccellente».

Shaykh Ibrahìm, non potendo rifiutarla da una mano così bella, la prese con un inchino e la portò alla bocca.

Essa gli disse mille gentilezze, e Nur ed-Din intanto si rovesciò sul sofà fingendo di dormire.

Tosto la bella Persiana avanzò verso Shaykh Ibrahìm e parlandogli a voce bassissima, disse:

«Lo vedete? Non si comporta mai altrimenti quando ce la spassiamo insieme. Non appena beve due bicchieri di vino s'addormenta e mi lascia sola: ma credo che voi sarete tanto buono da tenermi compagnia finché dormirà».

La bella Persiana prese una tazza, la riempì di vino e offrendola a Shaykh Ibrahìm gli disse:

«Prendete e bevete alla mia salute, ed io ricambierò i brindisi!».

Shaykh Ibrahìm oppose dapprima grandi difficoltà, pregandola insistentemente di volerlo dispensare: ma lei lo costrinse e lui alla fine, vinto dalle sue bellezze e dalle sue preghiere, prese la tazza e bevve fino in fondo.

Il buon vecchio amava bere, ma si vergognava di farlo davanti a gente che non conosceva. Andava alla taverna di nascosto come molti altri, e non aveva certo preso tutte quelle precauzioni che Nur ed-Din gli aveva suggerito per andare a comprare il vino. Era andato a prenderlo senza tante complicazioni da un taverniere che lo conosceva bene, profittando della oscurità della notte, e aveva risparmiato il danaro che gli avevano dato per il passante che avrebbe dovuto eseguire la commissione al suo posto secondo il piano di Nur ed-Din.

Mentre Shaykh Ibrahìm terminava di mangiare l'altra metà della mela, dopo che ebbe bevuto, la bella Persiana gli riempì un'altra tazza che egli prese con minore difficoltà, senza opporne più nessuna alla terza.

Stava bevendo la quarta, quando Nur ed-Din pose fine alla sua simulazione, e alzatosi a sedere, lo guardò e diede in un grande scoppio di risa, dicendogli:

«Ah, ah, Shaykh Ibrahìm, vi ho sorpreso! Mi avevate detto che avevate rinunciato al vino, e ora non la smettete più di bere!».

Shaykh Ibrahìm, non aspettandosi questa sorpresa, arrossì un poco; ma ciò non gli impedì di terminare di bere, poi, disse ridendo:

«Signore, se vi è peccato in quello che ho fatto, non deve cader sopra di me, ma sopra la vostra compagna; poiché è impossibile resistere a tante grazie!».

La bella Persiana, d'accordo con Nur ed-Din, prese le parti di Shaykh Ibrahìm, dicendogli:

«Shaykh Ibrahìm, lasciatelo dire e non ve ne date pensiero; continuate a bere e a divertirvi».

Alcuni momenti dopo Nur ed-Din si versò da bere e ne versò anche alla bella Persiana.

Allora Shaykh Ibrahìm, vedendo che Nur ed-Din non ne offriva anche a lui, prese una tazza e gliela tese, esclamando:

«E a me niente? Credete forse che non sappia bere quanto voi?». A queste parole di Shaykh Ibrahìm, Nur ed-Din e la bella Persiana scoppiarono in una sonora risata e continuarono a scherzare a ridere e a bere fino a mezzanotte, quando la bella Persiana notò che la tavola era illuminata da una sola candela:

«Shaykh Ibrahìm», disse al vecchio custode, «voi avete portato una sola candela, mentre qui vi sono tante belle torce. Fateci, vi prego, il piacere di accenderle, affinché ci si veda meglio».

Shaykh Ibrahìm, approfittando della libertà che dà il vino quando se ne è bevuto parecchio, e per non interrompere un discorso incominciato con Nur ed-Din, rispose alla donna:

«Accendetele voi stessa; ciò conviene assai più alla vostra giovinezza; ma badate di non accenderne più di cinque o sei».

La bella Persiana si alzò, andò a prendere una candela, l'accese a quella che stava sulla tavola, e accese tutte le ottanta candele poste sui bracci d'argento, senza dar retta a quanto Shaykh Ibrahìm le aveva detto.

Poco dopo, mentre Shaykh Ibrahìm conversava con la bella Persiana su un altro argomento, Nur ed-Din a sua volta, lo pregò di voler accendere qualche candelabro.

«Si vede», rispose Shaykh Ibrahìm, «che siete assai pigro o che avete minor vigore di me, se non potete accenderli voi stesso. Andate, accendeteli, ma non più di tre.»

Invece di accenderne tre Nur ed-Din li accese tutti, e aprì le ottanta finestre: Shaykh Ibrahìm, occupato a parlare con la bella Persiana, non vi fece attenzione.

Il califfo Harùn ar-Rashìd non si era ancora coricato, e stava in un salone del suo palazzo prospiciente il Tigri e che guardava dalla parte del giardino e del padiglione. Avendo per caso aperto da quella parte, fu sorpreso di vedere il padiglione tutto illuminato, e anzi, vedendo quel gran chiarore credette dapprima che ci fosse un incendio in città.

Il gran visir Giàafar era presso di lui e aspettava solo il momento in cui il califfo se ne sarebbe andato a letto per ritornarsene a casa.

Il califfo lo chiamò con grande sdegno e gli disse:

«Negligente visir, vieni qui, avvicinati, guarda il padiglione dei dipinti e dimmi perché è illuminato a quest'ora, mentre io non ci sono?».

Il visir fu assai spaventato da simile notizia, temendo che fosse vera, ed avvicinatosi tremò ancor più non appena ebbe visto che il califfo gli aveva detto la verità.

Era intanto necessario trovare subito un pretesto per calmarlo.

«Gran principe dei credenti», gli disse, «io posso soltanto dire alla maestà vostra, che quattro o cinque giorni or sono è venuto da me Shaykh Ibrahìm, per dirmi che aveva intenzione di raccogliere un'assemblea di sacerdoti della sua moschea per una certa cerimonia, ciò che è facile fare sotto il felice regno della maestà vostra. Io gli chiesi che cosa avrei potuto fare per compiacerlo in tale occasione, ed egli mi supplicò d'ottenere dalla maestà vostra il permesso di riunire l'assemblea e di fare la cerimonia nel vostro padiglione. Lo accomiatai dicendogli che poteva farlo, e che non avrei mancato di parlarne alla maestà vostra, ed ora chiedo perdono per essermene dimenticato. Shaykh Ibrahìm, a quel che sembra, ha scelto questo giorno per la cerimonia, e ricevendo i ministri della sua moschea ha voluto senza dubbio dar loro il piacere di questa illuminazione.»

«Giàafar», rispose il califfo con un tono che mostrava che si era un poco calmato, «secondo quanto mi hai detto, tu hai commesso tre errori imperdonabili: il primo d'aver dato il permesso a Shaykh Ibrahìm di fare tale cerimonia nel mio padiglione, essendo un semplice custode, immeritevole di tanto onore; il secondo, di non avermene parlato; e il terzo di non aver intuito l'intenzione di quel buon uomo. Difatti sono persuaso che egli volesse ottenere una gratifica che lo aiutasse a fare questa spesa.»

Il gran visir Giàafar, lieto che il califfo prendesse la cosa sotto questo aspetto, confessò con piacere d'aver fatto male e d'avere avuto torto non dando del danaro a Shaykh Ibrahìm.

«Poiché le cose stanno così», gli disse sorridendo il califfo, «è giusto che tu sia punito di questi errori: ma la punizione sarà leggera; dovrai cioè passare il rimanente della notte insieme a me con quella buona gente che sono curioso di vedere. Mentre io vado a indossare un abito da borghese, tu va pure a travestirti insieme a Masrùr, e venite tutti e due con me.»

Il visir Giàafar invano gli obbiettò che era tardi e che la compagnia se ne sarebbe andata prima che egli fosse giunto: quello gli rispose che voleva assolutamente andare. Siccome non vi era una sola parola di vero in tutto quanto il visir aveva detto, egli si disperò per tale decisione, ma occorreva obbedire e non replicare.

Il califfo uscì dunque dal suo palazzo travestito da borghese, insieme al gran visir Giàafar, e a Masrùr, capo degli eunuchi, e camminò per le strade di Bagdàd, finché giunse al giardino. La porta era aperta, per la negligenza di Shaykh Ibrahìm che si era dimenticato di chiuderla ritornando col vino.

Il califfo ne fu scandalizzato e disse al gran visir:

«Giàafar, come mai la porta è aperta a quest'ora? Sarebbe possibile che Shaykh Ibrahìm sia solito lasciarla sempre aperta la notte? Preferisco credere che il frastuono della festa gli abbia fatto commettere questo fallo».

Il califfo entrò nel giardino: e quando fu giunto al padiglione, non volle salire prima di sapere che cosa vi accadesse; si consigliò col suo gran visir, sull'opportunità di salire sopra un albero vicino per vedere che cosa si facesse là dentro.

Ma il gran visir, guardando la porta del salone, vide che era socchiusa e lo avvertì.

Shaykh Ibrahìm l'aveva lasciata così, quando s'era lasciato persuadere a entrare e a tener compagnia a Nur ed-Din e alla bella Persiana.

Il califfo abbandonò il suo primo proposito e salì senza far rumore fino alla porta socchiusa, in modo da poter vedere quelli che erano dentro senza esserne visto.

Grande fu la sua sorpresa nel vedere una donna d'una bellezza eccezionale e un giovane assai bello, mentre Shaykh Ibrahìm sedeva a tavola con loro.

Shaykh Ibrahìm teneva la tazza in mano, e diceva alla bella Persiana:

«Mia bella signora; un buon bevitore non deve mai bere senza cantare una canzonetta. Fatemi l'onore di ascoltarla poiché è molto graziosa».

Shaykh Ibrahìm cantò, e il califfo ne fu altrettanto maravigliato, perché aveva ignorato fino ad allora che bevesse vino, e lo aveva sempre creduto un uomo saggio e serio, come del resto si era sempre dimostrato.

Egli s'allontanò dalla porta con le medesime precauzioni con cui si era avvicinato, ed al gran visir Giàafar che stava sulla scala, alcuni gradini più sotto, disse:

«Sali, e vedi se quelli che stanno là dentro ti sembrano sacerdoti della moschea, come hai voluto farmi credere».

Dal tono con cui il califfo pronunziò queste parole, il gran visir capì assai bene che le cose si mettevano male per lui. Salì, e, guardando dallo spiraglio della porta, fu preso da terrore per la propria vita, vedendo quelle tre persone nelle condizioni in cui si trovavano.

Ritornò tutto confuso dal califfo, senza sapere che dirgli:

«Che disordine!», gli disse il califfo, «certe persone sono tanto audaci da venir a divertirsi nel mio giardino e nel mio padiglione e, ciò che è ancora più grave, Shaykh Ibrahìm le fa entrare, le sopporta e si diverte con loro! Ciò nonostante, poiché non credo che si possano vedere un giovane e una giovane più belli e meglio appaiati, prima di lasciare libero sfogo alla mia collera voglio informarmi meglio e sapere chi possano essere costoro e per quale caso si trovino qui».

Ritornò quindi alla porta per osservarli nuovamente, e il visir lo seguì, restandogli dietro.

Essi stettero in ascolto.

«Mia amabile signora, c'è qualche altra cosa che possiate desiderare per rendere più completa la gioia di questa serata?»

«Mi sembra», rispose la bella Persiana, «che tutto andrebbe a meraviglia, se avessi uno strumento per poter suonare.»

«Signora», le domandò Shaykh Ibrahìm, «sapete suonare il liuto?»

«Portatelo», gli disse la bella Persiana, «e ve lo dimostrerò.»

Shaykh Ibrahìm trasse un liuto da un armadio, e lo dette alla bella Persiana che cominciò ad accordarlo.

Il califfo intanto si rivolse al gran visir Giàafar e gli disse:

«Giàafar, la giovane sta per suonare il liuto; se lo suona bene, io la perdonerò insieme al giovane per amore di lei: in quanto a te non mancherò di farti impiccare!».

«Gran principe dei credenti, se la cosa deve finire così», replicò il gran visir, «io prego Dio che suoni male.»

«Perché?», domandò il califfo.

«Quanto più numerosi saremo», soggiunse il gran visir, «tanto più avremo motivi di consolazione poiché moriremo in bella e buona compagnia!»

Il califfo, che amava i bei motti, si mise a ridere, e, rivolgendosi nuovamente verso la porta, tese l'orecchio per sentir suonare la bella Persiana, la quale già preludiava in modo da far comprendere al califfo che essa suonava con maestria.

Cominciò a cantare un'aria accompagnando la sua voce, che era mirabile, col liuto, e lo fece con tanta arte e perfezione che il califfo ne rimase meravigliato.

Appena la bella Persiana ebbe terminato di cantare, il califfo discese dalla scala e il gran visir Giàafar lo seguì.

Quando furono nel giardino il califfo disse al visir:

«In fede mia non ho mai udito una così bella voce, né mai ho trovato chi suonasse il liuto con tanta maestria. Ne sono così contento, che voglio entrare, per sentirla suonare davanti a me. Ma come farò?».

«Gran principe dei credenti», rispose il gran visir, «se voi entrate, Shaykh Ibrahìm riconoscendovi, ne morrà di terrore.»

«Non so davvero come regolarmi», aggiunse il califfo, «e sarei profondamente dispiaciuto di essere la causa della sua morte dopo tanto tempo che mi serve. Mi viene un'idea: resta qui con Masrùr, e attendete il mio ritorno.»

La vicinanza del Tigri aveva dato al califfo l'idea di sviare l'acqua al disotto d'una grande volta per formare una bella vasca d'acqua dove i più bei pesci del Tigri venivano a rifugiarsi. I pescatori lo sapevano e desideravano moltissimo avere la libertà di pescarvi: ma il califfo aveva proibito espressamente a Shaykh Ibrahìm di permettere che qualcuno vi si avvicinasse.

Nondimeno in quella medesima notte un pescatore passando davanti alla porta del giardino, dopo che il califfo vi era entrato e l'aveva lasciata aperta come l'aveva trovata, profittando dell'occasione si era introdotto nel giardino fino alla vasca d'acqua.

Quel pescatore aveva gettato le sue reti e stava per ritirarle, nel momento in cui il califfo, sospettando quello che era accaduto in conseguenza della negligenza di Shaykh Ibrahìm e volendo profittare di quella occasione per attuare il suo piano, andò nello stesso luogo.

Malgrado il suo travestimento il pescatore lo riconobbe e si inginocchiò immediatamente ai suoi piedi, domandandogli perdono, e portando come scusa la sua povertà.

«Alzati e non temere», disse il califfo. «Tira solamente le tue reti, per vedere che pesce vi è dentro.»

Il pescatore rassicurato eseguì prontamente quello che il califfo desiderava e gli pose davanti cinque o sei pesci; il califfo scelse i due più grossi, che fece attaccare insieme per la testa con un giunco.

Poi disse al pescatore:

«Dammi il tuo abito, e prendi il mio».

Il cambio si fece in pochi minuti, ed appena il califfo fu vestito da pescatore, perfino nelle calzature e nel turbante, disse al pescatore:

«Prendi le tue reti e vattene per i fatti tuoi».

Quando il pescatore, assai contento della sua buona fortuna, se ne fu andato, il califfo prese i due pesci in mano, andò a raggiungere il gran visir Giàafar e Masrùr, e si fermò davanti al gran visir che non lo riconobbe e che anzi gli disse:

«Che vuoi? Vattene per la tua strada!».

Il califfo si mise a ridere, e il gran visir lo riconobbe.

«Gran principe dei credenti», esclamò, «possibile che siate voi! Non vi avevo riconosciuto, e vi chiedo perdono della mia scortesia. Potete entrare nel salone, senza temere che Shaykh Ibrahìm vi riconosca.»

«Restate dunque qui», gli rispose il califfo, «mentre io vado a rappresentare la mia parte.»

Il califfo salì al salone e picchiò alla porta.

Nur ed-Din, che l'udì per primo, ne avvertì Shaykh Ibrahìm, che domandò chi fosse.

Il califfo aprì la porta, e avanzandosi di un passo nel salone per farsi vedere, rispose:

«Shaykh Ibrahìm, io sono il pescatore Karìm: siccome ho visto che avete invitato degli amici, e poiché ho pescato proprio ora due bei pesci, vengo a domandarvi se ne avete bisogno».

Nur ed-Din e la bella Persiana furono felici nel sentir parlare di pesci.

«Shaykh Ibrahìm», disse la bella Persiana, «vi prego di farci il piacere di lasciarlo entrare, per vedere che pesce ha.»

Shaykh Ibrahìm, non più in condizione di domandare al presunto pescatore come e per dove fosse entrato, pensò solamente a compiacere la bella Persiana. Rivoltosi dalla parte della porta, con molta fatica, perché aveva bevuto molto, disse balbettando al califfo, che scambiava per un pescatore:

«Avvicinatevi buon ladro di notte, avvicinatevi, e fateci vedere il pesce».

Il califfo avanzò contraffacendo perfettamente tutte le maniere di un pescatore, e presentò i due pesci.

«Ecco due bellissimi pesci», disse la bella Persiana, «io li mangerei volentieri se fossero cotti e ben conditi.»

«La signora ha ragione», rispose Shaykh Ibrahìm, «che vuoi che facciamo del tuo pesce se non è arrostito? Va', fallo cuocere tu stesso e portacelo: troverai tutto nella mia cucina.»

Il califfo ritornò dal gran visir Giàafar e gli disse:

«Giàafar, sono stato assai ben ricevuto: ma vogliono che il pesce sia fritto».

«Ci penso io», rispose il visir, «sarà fatto in un momento.»

«Tengo tanto», aggiunse il califfo, «a venire a capo del mio progetto che mi prenderò la pena di farlo io stesso. Poiché so fare così bene il pescatore, posso ben fare il cuoco: e oltre a ciò ho cucinato qualche volta nella mia gioventù e non l'ho fatto male.»

Ciò detto, prese la via della casa di Shaykh Ibrahìm, e il gran visir e Masrùr lo seguirono.

Tutti e tre posero mano all'opera e, quantunque la cucina di Shaykh Ibrahìm non fosse grande, pure, non vi mancava nessuna delle cose che servivano loro, per cui prepararono ben presto il piatto del pesce.

Il califfo lo portò, e servendolo vi aggiunse anche dei limoni.

Mangiarono con grande appetito particolarmente Nur ed-Din e la bella Persiana, e il califfo restò con loro.

Quando ebbero terminato, Nur ed-Din guardò il califfo e gli disse:

«Pescatore, non si può mangiare miglior pesce di questo, e ci hai fatto il più gran piacere nel portarcelo».

Nello stesso tempo, estrasse la borsa, dove teneva trenta dinàr, il resto dei quaranta che Sangiar, usciere del palazzo del re di Bassora, gli aveva dato prima della partenza.

«Prendi», gli disse, «te ne darei di più se ne avessi. Ti avrei assicurato contro la povertà, se ti avessi conosciuto prima di dissipare tutto il mio patrimonio, ma tu accettalo con lo stesso buon cuore con cui te lo do.»

Il califfo prese la borsa e gli rispose:

«Signore, io non so come ringraziarvi della vostra generosità: ma prima di ritirarmi vorrei chiedervi un favore che vi supplico di concedermi. Ecco un liuto che mi fa intuire che la signora sa suonarlo. Se potessi ottenere da lei che mi facesse la grazia di suonare un solo pezzo, me ne andrei come il più contento fra tutti gli uomini, perché è uno strumento che amo immensamente».

«Bella Persiana», disse subito Nur ed-Din rivolgendosi a lei, «vi chiedo questa grazia e spero che non me la rifiuterete.»

Ella prese il liuto, e, dopo averlo accordato in pochi minuti, suonò e cantò un'aria con tanta forza e grazia, che il califfo andò in estasi.

Quando la bella Persiana ebbe cessato di cantare, questi esclamò:

«Ah! quale voce, quale mano e quale suono! Si è mai cantato, o suonato il liuto meglio di così? Non si è mai veduto né udito niente di simile».

Nur ed-Din, abituato a dare quanto gli apparteneva a tutti coloro che gliene facevano le lodi, disse al califfo:

«Pescatore, vedo bene che tu te ne intendi; poiché ti piace tanto, è tua, te ne faccio dono».

Nello stesso tempo si alzò e, presa la sua veste, che si era tolta, si avviò per partire, lasciando il califfo, che credeva fosse un pescatore che ormai possedeva la bella Persiana: ma questa, estremamente sorpresa della generosità di Nur ed-Din, lo trattenne, e, guardandolo teneramente, gli disse:
«Signore, dove pensate dunque di andare? Rimettetevi al vostro posto, ve ne supplico, ed ascoltate quello che suonerò e canterò».

Egli l'accontentò e lei, con le lacrime agli occhi, guardandolo, cantò dei versi che improvvisò, con i quali gli rimproverò vivamente il poco amore che aveva per lei, poiché l'abbandonava così facilmente a Karìm, senza dolore.

Essa voleva dire, senza spiegarsi di più oltre, a un pescatore come Karìm, perché non sapeva che fosse il califfo.

Nel terminare posò il liuto lì vicino e si portò il fazzoletto al viso per nascondere le lacrime che non poteva trattenere.

Nur ed-Din non rispose nemmeno una parola, e col silenzio mostrò che non si pentiva della donazione che aveva fatta.

Ma il califfo, sorpreso di quanto sentiva, gli disse:

«Signore, a quel che vedo questa signora così bella, così rara ed ammirabile, che mi donate con tanta generosità, è vostra schiava, e voi ne siete il padrone».

«E vero Karìm», rispose Nur ed-Din, «e tu saresti assai più meravigliato, se ti raccontassi tutte le disgrazie che mi sono accadute per causa sua.»

«Di grazia, signore», disse il califfo, recitando sempre bene la parte di pescatore, «fatemi il favore di raccontarmi la vostra storia.»

Nur ed-Din che aveva fatto per lui cose ben più gravi, quantunque credesse che fosse solo un pescatore, volle compiacerlo anche in questo.

Gli raccontò tutta la storia, cominciando dall'acquisto fatto dal visir suo padre della bella Persiana per il re di Bassora, e non omise nulla di quanto aveva fatto, o gli era accaduto a Bagdàd con lei fino al momento in cui parlava.

Quando Nur ed-Din ebbe terminato, il califfo gli domandò:

«E ora dove andate?».

«Dove vado?», rispose. «Dove Dio mi condurrà!»

«Se volete seguire il mio consiglio», soggiunse il califfo, «non andrete molto lontano; anzi, al contrario, occorre che ritorniate a Bassora. Io vi darò una lettera che darete al re da parte mia, e vedrete che vi riceverà assai bene appena l'avrà letta, e che nessuno vi farà rimproveri.»

«Karìm», replicò Nur ed-Din, «quello che tu mi dici è assai strano; non si è mai visto che un pescatore come te abbia una corrispondenza con un re.»

«Ciò non deve meravigliarvi», soggiunse il califfo, «abbiamo fatto i nostri studi insieme con gli stessi maestri, e siamo stati sempre i migliori amici del mondo. E vero che la fortuna non ci ha egualmente favoriti, avendo fatto lui re e me pescatore, ma questa disparità non ha peraltro diminuita la nostra amicizia. Egli ha cercato di sollevarmi dal mio stato, con tutte le premure possibili. Io mi sono accontentato della sua stima per cui non mi ricusa nulla di quello che gli chiedo in favore di miei amici; lasciatemi dunque fare e ne vedrete le conseguenze.»

Nur ed-Din acconsentì a quello che il califfo voleva, e, essendovi nel salone quanto occorreva per scrivere, il califfo scrisse la seguente lettera al re di Bassora, in cima alla quale, quasi sull'estremità della carta, aggiunse questa formula in piccolissimi caratteri: «In nome di Dio misericordiosissimo» per indicare che voleva essere ubbidito assolutamente.

Harùn ar Rashìd, figlio di Mahdi, a Mohammed Zinebi, suo cugino.

Appena Nur ed-Din, figlio del visir Khacan, ti porterà questa lettera e l'avrai letta, spogliati sul momento del tuo manto reale, mettiglielo sulle spalle, e fallo sedere al tuo posto, e non disobbedire.

Addio.

Il califfo piegò e suggellò la lettera, e, senza dire a Nur ed-Din che cosa contenesse:

«Tenete», gli disse, «e andate ad imbarcarvi senza indugio sopra un bastimento che partirà subito, poiché ne salpa uno ogni giorno alla stessa ora; dormirete quando vi sarete imbarcato».

Nur ed-Din prese la lettera e partì col poco denaro che aveva indosso, lasciando inconsolabile la bella Persiana, che proruppe in lacrime.

Appena Nur ed-Din uscì dal salone, Shaykh Ibrahìm, il quale era stato in silenzio durante tutta la scena, guardò il califfo, che prendeva sempre per il pescatore Karìm, e gli disse:

«Karìm, tu ci hai portato due pesci che valgono al più venti monete di rame, e perciò hai avuto una borsa e una schiava; pensi che tutto ciò debba essere per te solo? Io ti dichiaro che voglio avere la schiava per metà. In quanto alla borsa, mostrami quanto vi è dentro: se v'è argento, ne prenderai una moneta per te: e se v'è oro, io prenderò tutto e ti darò in cambio alcune monete di rame che mi restano nella borsa».

Per ben comprendere il seguito della storia - disse a questo punto Shahrazàd interrompendo il racconto - occorre dire che il califfo prima di portare nel salone il piatto preparato, aveva incaricato il gran visir Giàafar di andare subito al palazzo per condurgli quattro servitori con un abito e di andare ad attenderlo dall'altro lato del padiglione fino a che battesse con le mani da una finestra.

Il gran visir aveva eseguito l'ordine, ed egli e Masrùr con i quattro servitori aspettavano nel luogo designato che desse il segnale.

Il califfo, sempre fingendo di essere un pescatore, rispose arditamente a Shaykh Ibrahìm:

«Shaykh Ibrahìm, io non so quanto vi sia nella borsa: accetto di dividerla a metà con voi, oro o argento che sia: in quanto alla schiava, voglio tenerla per me solo. Se poi non volete stare alle condizioni che vi propongo, non avrete nulla».

Shaykh Ibrahìm, trasportato dalla collera a questa insolenza, che pensava gli fosse fatta da un pescatore, prese una delle tazze che stavano sulla tavola e la gettò contro la testa del califfo, che durò molta fatica a scansarla.

Shaykh Ibrahìm, più sdegnato di prima per aver mancato il colpo, prese la candela che stava sulla tavola, s'alzò vacillando e scese per una scala segreta per andare a cercare un bastone.

Il califfo profittò dell'occasione, per picchiare con le mani ad una delle finestre.

Il gran visir, Masrùr e i quattro servitori arrivarono subito e i servi gli tolsero in un baleno l'abito da pescatore, mettendogli quello che gli avevano portato.

Non avevano ancora terminato ed erano tutti occupati intorno al califfo seduto sul trono che c'era nel salone, quando Shaykh Ibrahìm spinto dall'interesse, rientrò con un grosso bastone in mano col quale voleva picchiare ben bene le spalle al preteso pescatore.

Invece di trovarlo, ne scorse solo l'abito in mezzo al salone, e vide il califfo seduto sul suo trono col gran visir e Masrùr ai suoi fianchi.

Egli si fermò a quello spettacolo.

Il califfo si mise a ridere del suo stupore e gli disse:

«Shaykh Ibrahìm, che vuoi, che cerchi?».

Shaykh Ibrahìm, che non poteva più dubitare che quello fosse il califfo, si gettò ai suoi piedi posando la faccia dalla lunga barba per terra, ed esclamando:
«Gran principe dei credenti, il vostro vile schiavo vi ha offeso, ed implora la vostra clemenza, chiedendovene mille volte perdono!».

Quando i servi ebbero finito di vestire il califfo, questi discese dal trono e disse a Shaykh Ibrahìm:

«Alzati, ti perdono!».

Il califfo si rivolse alla bella Persiana che aveva cessato di piangere non appena aveva capito che il giardino e il padiglione appartenevano a quel principe e non già a Shaykh Ibrahìm, come gli aveva detto, e che quell'uomo travestito da pescatore, era il califfo.

«Bella Persiana», le disse, «alzatevi e seguitemi. Voi dovete aver capito chi sono dopo tutto quello che avete visto; non sono uomo da profittare del dono che Nur ed-Din m'ha fatto della vostra persona con una generosità che non ha pari. Io l'ho mandato a Bassora per diventarvi re, e manderò anche voi come regina, appena gli avrò mandato i decreti necessari per la sua investitura. Io vado intanto a farvi preparare un appartamento nel mio palazzo, dove sarete trattata secondo il vostro merito.»

Questo discorso rassicurò completamente la bella Persiana che si consolò della sua afflizione, sapendo che Nur ed-Din, da lei amato così appassionatamente, era innalzato ad una simile dignità.

Il califfo mantenne la promessa e la raccomandò anche a sua moglie Zobeida, dopo che l'ebbe messa a parte della stima che aveva per Nur ed-Din.
Il ritorno di Nur ed-Din a Bassora fu più felice di quanto avrebbe potuto desiderare.

Al suo arrivo, senza vedere né amici né parenti, andò dritto al palazzo del re e trovò che stava dando udienza. Egli fendette la calca tenendo alzata con la mano la lettera, che presentò subito.

Il re la ricevette, l'aprì e impallidì nel leggerla. La baciò per ben tre volte, e stava per eseguire l'ordine, quando pensò di mostrarla al visir Saouy, nemico irriconciliabile di Nur ed-Din.

Saouy che aveva riconosciuto Nur ed-Din e che cercava tra sé con grande inquietudine di indovinare i motivi per cui era venuto, non fu meno sorpreso del re dell'ordine che la lettera conteneva.

Non essendo egli meno interessato del re, immaginò in un momento il mezzo di eludere l'ordine, e, fingendo di non aver ben letto, per leggerla una seconda volta, si trasse un poco in disparte come per aver più luce.

Allora, senza che nessuno se ne accorgesse, strappò destramente la frase in cima alla lettera, la portò alla bocca e l'inghiottì. Dopo tale malvagità, Saouy si voltò dalla parte del re, gli rese la lettera e parlando sommesso gli chiese:

«Ebbene, sire, qual è l'intenzione della maestà vostra?».

«Di fare quanto il califfo mi domanda», rispose il re.

«Guardatevene bene, sire», soggiunse il malvagio visir, «questa è la scrittura del califfo, ma la formula non c'è!...»

Il re l'aveva vista, ma nel turbamento in cui era, credette d'essersi ingannato, non vedendola più.

«Sire», continuò il visir, «il califfo ha scritto certamente questa lettera per Nur ed-Din, in seguito alle lamentele che egli avrà fatto contro vostra maestà e contro di me, al solo fine di liberarsi di lui, ma egli non pensa che voi eseguiate quello che contiene. Di più, sulla sua lettera non risulta la frase convenuta, e senza la quale lo scritto non ha alcun valore. Non si dimette un re come la maestà vostra, senza questa formalità, poiché ogni altro oltre a Nur ed-Din potrebbe venire con una falsa lettera; ciò non si è mai fatto. Sire, la maestà vostra può fidarsi della mia parola, e prendo io stesso su di me tutto il male che ne potrebbe derivare.»

Il re Zinebi si lasciò persuadere ed abbandonò Nur ed-Din alla discrezione del visir Saouy, il quale lo condusse a casa sua con una forte scorta di soldati.

Appena vi fu giunto, lo fece bastonare fino a che restò come morto, ed in quello stato lo fece portare in prigione, e comandò che lo mettessero nella segreta più oscura e profonda, con l'ordine al carceriere di dargli soltanto pane ed acqua.

Quando Nur ed-Din ritornò in sé, vedendosi in quella segreta, cominciò a lamentarsi con pietose grida, deplorando il suo sciagurato destino, e dicendo:

«Ah! pescatore, mi hai ingannato! E quanto sono stato ingenuo a crederti! Come potevo aspettarmi un destino così crudele dopo tutto il bene che ti ho fatto? Dio ti benedica nondimeno, perché non posso credere che tu mi abbia fatto del male di proposito, ed avrò pazienza fino alla fine dei miei mali».

L'afflitto Nur ed-Din restò dieci giorni in quello stato.

Il visir Saouy, che era deciso a farlo morire ma non osava agire senza autorizzazione, caricò parecchi schiavi con doni diversi e andò a presentarsi al re.

«Sire», gli disse maliziosamente, «ecco quanto il nuovo re manda alla maestà vostra con la preghiera di voler festeggiare il suo avvento sul trono.»
Il re comprese subito quello che Saouy voleva fargli intendere ed esclamò:

«Come! Quello sciagurato vive ancora? Credevo che tu l'avessi fatto morire!».

«Sire», soggiunse Saouy, «non spetta a me far togliere la vita a chicchessia, ma alla maestà vostra!»

«Va'», replicò il re, «fagli mozzare il capo; te ne do il permesso.»

«Sire», disse allora Saouy, «io sono infinitamente grato alla maestà vostra della giustizia che mi rende: ma siccome Nur ed-Din m'ha oltraggiato pubblicamente, così chiedo la grazia che se ne faccia l'esecuzione davanti al palazzo, e che i banditori vadano ad annunciarlo in tutte le contrade della città, perché nessuno ignori che l'offesa che mi fu fatta sarà pienamente vendicata.»

Il re concedette quanto gli domandava e i banditori facendo il loro dovere seminarono nella città una tristezza generale; perché la memoria ancor viva delle virtù del padre fece sì che tutti s'indignassero perché si faceva ignominiosamente morire il figlio, per istigazione del malvagio visir Saouy.
Saouy andò alla prigione, accompagnato da una ventina dei suoi schiavi, esecutori della sua crudeltà.

Gli condussero Nur ed-Din ed egli lo fece montare su un cattivo cavallo, senza sella.

Appena Nur ed-Din si vide tra le mani del suo nemico, gli disse:

«Tu trionfi e abusi della tua potenza: ma io confido nella verità del detto di uno dei nostri sacri testi: "Voi giudicate ingiustamente, ma tra poco sarete giudicati anche voi!"».

Il visir Saouy, gongolando di gioia, gli rispose:

«Come, insolente, osi anche insultarmi? Va', te lo perdono; accada ciò che deve accadere, basta che io abbia visto il tuo capo mozzato al cospetto di tutta Bassora. Tu devi sapere che un altro dei nostri libri dice: "Che importa di morire l'indomani della morte del tuo nemico?"».

Questo ministro, implacabile nel suo odio e nella sua inimicizia, circondato da un gruppo di schiavi armati, fece condurre da altri schiavi Nur ed-Din davanti a lui e prese la via del palazzo.

Il popolo fu sul punto di gettarsi su di lui, e l'avrebbe lapidato, se qualcuno ne avesse dato l'esempio.

Quando l'ebbe condotto fino alla piazza dove sorgeva il palazzo, di fronte all'appartamento del re, lo lasciò tra le mani del carnefice, e si recò dal re, che era già nel suo ufficio privato, pronto a godere con lui del sanguinoso spettacolo che si preparava.

La guardia del re e gli schiavi del visir Saouy, che facevano un gran circolo intorno a Nur ed-Din, durarono molta fatica a trattenere la folla, che faceva tutti gli sforzi possibili, ma inutilmente, per sfondare il cerchio compatto che formavano e rapire il condannato.

Il carnefice avvicinandosi a Nur ed-Din, gli disse:

«Signore, vi supplico di perdonarmi la vostra morte, io non sono che uno schiavo e non posso dispensarmi dal fare il mio dovere; a meno che non abbiate bisogno di qualche cosa, vogliate prepararvi perché il re or ora mi comanderà di colpire».

In quel momento il desolato Nur ed-Din rivolgendosi a destra e a sinistra esclamò:

«Non vi è qualche persona caritatevole che voglia portarmi dell'acqua per estinguere la mia sete?».

Gliene portarono una brocca all'istante.

Il visir Saouy, accorgendosi del ritardo, gridò al carnefice dalla finestra del gabinetto del re:

«Che aspetti? Colpisci!».

A queste parole barbare e piene d'inumanità, la piazza rimbombò di imprecazioni contro di lui: e il re geloso della sua autorità, non approvò l'iniziativa del visir in sua presenza, e lo mostrò, ordinando di aspettare.

Ma vi era anche un'altra ragione, perché in quel momento, volgendo gli occhi verso una strada che si apriva di fronte a lui, vi scorse una schiera di cavalieri che correvano a briglia sciolta.

«Visir», disse subito a Saouy, «che accade? Guarda!»

Saouy, il quale dubitava di quello che potesse essere, pressava il re perché desse il segnale al carnefice.

«No», rispose 1l re, «voglio prima sapere chi sono quei cavalieri.»

Era il gran visir Giàafar con il suo seguito che veniva in persona da Bagdàd da parte del califfo.

Per comprendere il motivo dell'arrivo di quel ministro a Bassora, bisogna sapere che dopo la partenza di Nur ed-Din con la lettera del califfo, costui aveva scordato per più giorni d'inviare il decreto di cui aveva parlato alla bella Persiana. Egli stava nel palazzo interno, e passando davanti a un appartamento udì una bella voce.

S'arrestò, e appena udite alcune parole del canto, che esprimevano il dolore per la partenza di Nur ed-Din, chiese a un ufficiale degli eunuchi chi fosse la donna che cantava in quell'appartamento: e l'ufficiale rispose che era la schiava del giovane signore mandato a Bassora per diventare re, invece di Mohammed Zinebi.

«Ah! povero Nur ed-Din, figlio di Khacan», esclamò allora il califfo, «ti avevo dimenticato! Presto», soggiunse, «presto, fate venir qui Giàafar.»

Il visir giunse subito.

«Giàafar», gli disse il califfo, «non mi sono ricordato di mandare il decreto con cui Nur ed-Din veniva riconosciuto re di Bassora; ora non c'è tempo da perdere, prendi gente e cavalli e va subito a Bassora. Se Nur ed-Din è stato ucciso, fa impiccare il visir Saouy; se invece non è morto, conducimi quel visir insieme al re.»

Il gran visir Giàafar, salito a cavallo, partì subito con un buon numero d'ufficiali della sua casa, e giunse a Bassora nel modo e nel momento che abbiamo già detto.

Appena egli giunse nella piazza, tutti si trassero da parte per fargli largo, chiedendo grazia per Nur ed-Din.

Il re di Bassora, avendo riconosciuto il primo ministro del califfo, gli andò incontro e lo ricevette all'ingresso del suo appartamento.

Il gran visir domandò prima di ogni altra cosa se Nur ed-Din fosse ancora vivo, comandando che lo chiamassero subito.

Il re rispose di sì, e diede l'ordine di farlo venire.

Egli apparve subito, ma legato; e il gran visir lo fece sciogliere e mettere in libertà e comandò che prendessero il visir Saouy, legandolo con quelle medesime corde.

Il gran visir Giàafar non rimase che una notte a Bassora, e ripartì l'indomani conducendo con sé Saouy, il re di Bassora e Nur ed-Din.

Quando giunse a Bagdàd li presentò al califfo, dopo avergli riferito del suo viaggio e particolarmente dello stato in cui aveva trovato Nur ed-Din, e del modo in cui era stato trattato, per consiglio e per odio di Saouy. Il califfo propose a Nur ed-Din di mozzare lui stesso il capo al visir Saouy.

«Gran principe dei credenti», rispose Nur ed-Din, «malgrado tutti i mali che ha potuto fare a me e al defunto mio padre, mi considererei il più infame di tutti gli uomini se lordassi le mie mani col suo sangue!»

Il califfo approvò la sua generosità e fece fare giustizia dal carnefice.

Il califfo voleva rimandare Nur ed-Din a Bassora per regnarvi.

Ma Nur ed-Din lo supplicò di volerlo dispensare, dicendogli:

«Gran principe dei credenti, la città di Bassora mi sarebbe ora, dopo quanto mi è accaduto, tanto odiosa, che oso supplicare la maestà vostra di permettermi di mantenere il giuramento che ho fatto di non ritornarvi mai più per tutta la vita. Sarei lieto e orgoglioso di poter prestare i miei servigi alla maestà vostra, restando qui, se voleste avere la bontà di concedermene la grazia».

Il califfo lo accolse nel numero dei suoi più intimi cortigiani, gli rese la bella Persiana, e lo colmò di tanti benefici che vissero insieme fino alla morte con tutta la felicità desiderabile.

In quanto al re di Bassora, il califfo si contentò di avergli dimostrato quanto si debba essere accorti nella scelta dei visir e lo rimandò nel suo regno.

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